Seconda puntata del saggio di Alessandro Rolandi sul ruolo dell’avanguardia artistica oggi, al cospetto della rivoluzione messa in atto dalle applicazioni di social networking che rendono «artistica» la banalissima vita, senza mediazioni. L’internet cinese da sempre è stata una realtà interessantissima, in cui autorità e popolazione si sfidano e si consultano senza tregua, in una complicatissima partita a scacchi dove ogni mossa diventa un capolavoro di strategia, un lampo di improvvisazione, un’opportunità nella contraddizione.
La comunicazione in linea, oggi, nonostante sia controllata e censurata, probabilmente anche a causa dell’educazione e in parte anche dell’eredità culturale asiatica, risulta più colorata, varia e ricca di tensioni rispetto a quella di persona. Il fatto che sia per la massa sia per l’individuo diventi comunque spesso l’unico strumento per «tentare qualcosa» in qualsiasi ambito della vita, dal business alla dissidenza, dalla celebrità alla denuncia e al linciaggio, trasforma la Rete in una realtà parallela in cui anziché perdersi (come mi sembra accada più spesso in Occidente) si cercano gli strumenti per agire, mordere e sopravvivere nella realtà fisica che essendo ormai totalmente distopica da tanto tempo, viene vissuta senza attese o riferimenti, ma solo come un mare in tempesta in cui navigare a vista. Internet è l’equivalente della scala della contadina sudamericana con cui i cinesi tentano di salire un po’ in alto per scrutare l’orizzonte.
Tornando quindi a queste «dirette» in Rete, in cui ognuno racconta la banalità quotidiana senza particolari strategie oltre quella di apparire e collezionare followers ed interlocutori, è impossibile non rimanere affascinati dalle sensazioni di freschezza, assurdità e intensità che ne derivano.
Su Inke, Kway e credo altre 15-20 nuove applicazioni-piattaforma, il popolo cinese utilizza questa breccia iperreale nella realtà per mettere in scena se stesso senza sosta, raccontando, mostrando e vivendo davanti a tutti per ore.
È interessantissimo che la sostenibilità di quella che potrebbe essere solo una moda passeggera, sembra garantita per ora da un elemento economico di scambio di denaro digitale e «visuale», che avviene attraverso la distribuzione, associata a «like», cuoricini e altre emoticon particolari, di frutta, ortaggi, verdure e oggetti, che sono in realtà denaro vero in forma digitale (intrigante da un punto di vista estetico e concettuale).
Fate un giro su una di queste applicazioni e vedrete in diretta la studentessa carina, la massaia, il cuoco, l’operaia in fabbrica, il taxista, l’impiegato, il manager, tutti interagire e «pagarsi» per ascoltarsi e vedersi vivere a vicenda, senza uno scopo e con tutti gli scopi al medesimo tempo: un po’ di flirting, il desiderio di essere celebrità online, cercare un sugar daddy, parlare di sé, sfuggire alla solitudine e magari, allo stesso tempo, far pubblicità al proprio negozio, cercare informazioni, inventarsi la pubblicità del proprio chiosco di salsicce in strada, fare yoga in diretta, improvvisarsi intrattenitori, condividere le ultime notizie su come è cool vestirsi o pettinarsi o che musica ascoltare. E tutto guardandosi e lasciandosi guardare (o meno, a seconda del bottone), ascoltando, scrivendo o parlando, mentre tutte le emoticon colorate scorrrono come un fiume.
Tutto senza un vero e proprio design, se non quello dell’applicazione e delle emoticon, senza messa in scena se non improvvisata, con la nonna che entra nella stanza, il vicino che suona, il fattorino che recapita una lettera o l’altro vicino che si lamenta.
Le conversazioni sono multiple e così gli sguardi visibili e quelli invisibili. Tutto è sia spontaneo sia calcolato, ma sempre nell’azione, al medesimo tempo ed avviene senza chiedersi che tipo di pericoli, opportunità, dinamismi e casualità reali o immaginari per l’individuo e per la collettività questo sciame di immagini, suoni, storie, informazioni e vite condivise possa generare.
Un gigantesco big data senza argomento specifico in cui l’elemento relazionale mediato dalla rete si articola all’infinito nella vita di tutti I giorni.
Si può pensare che la maggior parte della comunicazione di alcuni milioni di persone (forse centinaia di milioni) passi già più per questa forma che per quella tradizionale o altre precedentemente usate e ancora in uso, come Wechat e Weibo.
Coinvolge soprattutto la fascia popolare, ma anche questa affermazione è da rivisitare. Di recente, sono stato invitato a partecipare ad una seduta di performance art online, organizzata da una nuova applicazione di questo genere che aveva deciso di ricorrere ad artisti per un pubblicizzare un secondo lancio in linea.
Personalmente da parecchio non incontravo qualcosa di così radicale, organico, distopico ma anche utopico e affascinante come questa forma di interazione; ed è la sua apparente normalità, comune a tutto ciò di cui il popolo cinese si appropria, che lascia a bocca aperta.
Messo di fronte all’ipotesi di fare una performance dall’account che l’applicazione mi aveva aperto appositamente, fin dall’inizio sono rimasto impietrito a chiedermi: ma che cosa può fare un artista in questa situazione?
Come si può pensarla, quando così com’è passa di gran lunga tutto ciò che si puo immaginare come dispositivo inquietante e seducente allo stesso tempo?
Ricordo alla fine, di aver scelto di fissare lo schermo del telefono senza far nulla col pensiero fisso che dall’altra parte uno numeo sconfinato di gente mi stava guardando, scrivendo, parlando, ascoltando e che alcuni apparivano mentre altri rimanevano nascosti, ma non c’era più divisione…tutto esisteva ovunque al medesimo tempo.
È stato terrificante, quasi impossibile da gestire per me, mentre per la giovane venditrice di polli carina di Shenzhen sembra così normale, divertente e utile, visto che mentre si mostra carina e piuttosto sanguigna, chiedendo ad un salesman in viaggio in macchina nel Liaoning se guadagna abbastanza da offrirle un abito e di mandaglierlo al più presto con Taobao, sta anche spennando una gallina e facendo una panoramica sul pollaio, buttando lì qualche frase su come nel suo allevamento tutto sia buono e ruspante, ma tenendo un occhio sul nuovo arrivato in linea e sparando qualche domanda chiave all’altro interlocutore nel Guangdong che per ora non vuole mostrarsi ma vuole solo parlare.
Sembra che si possa arrivare a guadagnare tra i 2000 e I 10.000 Rmb al mese passando il proprio tempo su una di queste applicazioni. Anche se le persone che guadagnano cifre alte sono ormai organizzate da vere e proprie agenzie, un operaio specializzato ne guadagna al massimo 3000-5000. A mia conoscenza, e non sono un esperto, per ora, a parte l’ovvio controllo politico governativo, non ci sono ancora monopoli giganti come un Google o un Facebook che controllano il mercato di queste applicazioni e dettano le regole di come siano distribuiti gli account.
Se da un un lato è chiaro che, osservando tutto ciò, stiamo guardando da vicino tutti I nostri dubbi sulla qualità, la natura e la reificazione delle relazioni umane e gli scenari da incubo connessi, è anche vero che i cinesi ci sorprendono ancora una volta perché, almeno fino a quando un Alibaba o lo Stato non recupereranno tutto, sono riusciti a costruire una micro-economia in cui un’enorme net-community che si è autogenerata riesce a pagarsi per esistere e ascoltarsi, scambiarsi informazioni e interagire in Internet.
Mentre in Occidente, ammaliati dall’onnipresente fantasma dell’internet gratis, abbiamo dato e continuiamo a dare gratuitamente il nostro tempo e le nostre informazioni ai vari Zuckerberg, i cinesi, quasi in maniera involontaria ma intuitiva, sperimentano modelli possibili che magari spariranno, o magari chissà, diventeranno altro.
Se a prima vista si potrebbe pensare che l’Occidente offra sistemi molto simili (già esistono applicazioni del genere), in realtà, almeno per il momento, l’utilizzazione che ne viene fatta è profondamente diversa a cause di fattori molteplici.
Una cara amica scrittrice e curatrice mi diceva recentemente di aver imparato di più sulla società cinese passando un paio di pomeriggi a seguire persone su una di queste applicazioni, che leggendo tutti gli ultimi articoli di sociologia che riceve mensilmente.
La narrative multiple che vengono create da queste interazioni sono potenzialmente infinite e incontrollabili, almeno nelle condizioni del momento.
Il pragmatismo e la curiosità del popolo cinese e la sua creatività legata alla sopravvivenza, trasforma questa forma in un sistema a livelli multipli di interazione, in cui la complessità della vita appare in un modo così diretto e totale che è difficile anche solo averci a che fare. Un’arte contemporanea che vuole anche solo tentare di agire sulla realtà non può non riconoscersi sconfitta dall’energia e dalla presenza stessa di qualcosa di simile.
Dal medium, alla situazione, al contesto, ogni proposta di reinterpretare o indagare è anticipata, il ritardo è irrecuperabile.
Non ha neanche senso provarci.
Come si può «agire» all’interno di un’azione collettiva ininterrotta, in parte naïve e inconsapevole, ma anche intuitivamente capace di trovare i meccanismi pragmatici necessari a riprodursi e a mantenersi in vita senza arresto? Forse esagero, ma il confronto con quest’ultima realtà che fatico a definire in termini di reale o virtuale, mi ha lasciato con il pensiero che la vita si stia sbarazzando dell’arte senza saperlo (e anche senza volerlo) e che all’arte, ormai prigioniera del fatto di essere esperta solo di se stessa, rimangano poche altre opzioni se non quella di evidenziare e testimoniare l’emergenza di questi processi, e magari di provare a difenderli e orientarli, un po’ come un agente segreto infiltrato nella società con un’agenda artistica (nelle parole del teorico Stephen Wright); ma poi, per chi si scriverebbero i rapporti e a chi bisognerebbe mandarli? Io ritorno al mio account in diretta a vedere cosa succede.
Fine. La prima parte
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito. «Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
*Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.