«Host» è un’installazione che Antony Gormley ha già proposto in altre occasioni. C’è un grande pantano e poi, come sempre, i suoi umanoidi. Ma questa volta, il grande scultore britannico sta forse cercando di dirci qualcosa di diverso. Mi sento molto spaesato quando si tratta di vedere una mostra personale di un artista talmente conosciuto e presente in pubblicazioni, mostre internazionali, cataloghi, libri, collezioni etc. Ci sono troppi elementi estranei che influenzano il modo di porsi nei confronti del lavoro dei «mostri sacri», per cui è facile sia abbandonarsi a critiche vuote su come il lavoro «fosse molto meglio prima» o indulgere in una celebrazione obbligatoria e altrettanto vacua.
Per gli artisti stessi, a tali livelli di notorietà, diventa spesso impossibile ricostruire le condizioni per sorprendere, destabilizzare o emozionare profondamente, perché questo tipo di mostre si pone spesso l’obiettivo opposto, cioè quello di confermare, rassicurare e appunto celebrare una legittimità, e garantire un certo tipo di emozioni e reazioni e un contesto che tutti si aspettano.
Un po’ come nei film hollywoodiani in cui il suspense è piacevole perché siamo sempre completamente in controllo delle possibili opzioni che ci sono «suggerite» per produrre un’esperienza forte ma controllata allo stesso tempo.
Visto che l’arte, anche se non è troppo lontana, non obbedisce ancora completamente a un modello del genere, alcune piacevoli sorprese sono ancora possibili.
Quello che spero di trovare in situazioni simili, dunque, è un dettaglio o un cambiamento, come la scelta di un lavoro inatteso, magari che stride col resto, o che lo contraddice, che mi fa pensare che l’artista vuole provare a non farsi trovare dove tutti si aspettano che sia.
«Host» è un’installazione che Antony Gormley ha già proposto in due occasioni precedenti prima di quella attuale a Galleria Continua di Pechino.
È la terza volta che viene presentata: la prima volta fu negli Stati Uniti nel 1991 e la seconda in Germania nel 1997.
Per realizzarla, il pavimento dello spazio centrale della galleria è stato sommerso da uno strato melmoso di 23 cm, costituito da acqua di mare proveniente dalla regione costiera di Tianjin mescolata in un rapporto di 50:50 con 95 metri cubi di terra del distretto di Changping dal caratteristico colore marrone giallastro.
Lo spazio è saturato da questo paesaggio naturale ricostruito artificialmente, ma non sono presenti altri elementi sculturali o fisici di altro genere, e quindi si affermano anche un senso di vuoto e un silenzio molto particolari.
Gormley descrive «Host» come il «luogo del divenire», aggiungendo che lo scopo di portare una sorta di brodo primordiale all’interno del cubo bianco museale, è quello di «guarire la divisione tra l’interno e l’esterno e di portare il mondo elementare all’interno di una cornice culturale».
Rispettando ovviamente queste dichiarazioni specifiche, è ripensandola in relazione alla carriera dell’artista, che quest’opera diventa interessante.
Infatti c’è un qualcosa di particolare che la contraddistingue rispetto alle altre che hanno imposto questo scultore nato nel 1950 all’attenzione internazionale, confermandolo come una delle figure di riferimento della scultura contemporanea.
«Host» ha un qualcosa che sembra opporsi al resto della sua pratica artistica, quasi come se volesse smascherarne o testarne la legittimità.
Antony Gormley ha scelto di costruire la sua ricerca scultorica partendo dalla figura umana, che ha sintetizzato in una proporzione «tipica» successivamente declinata in serie di multipli in cui la specificità dei materiali e la varietà dei tipi di strutture possibili per ogni serie costituisce il grado di differenza.
Il suo è stato un tentativo di riappropriarsi della rappresentazione del volume del corpo umano, che, pur rimanendo in un sistema di riferimento pre-classico e classico (quello della scultura tuttotondo a dimensione realista o monumentale), si è imposto nel pieno della disgregazione postmoderna e della conseguente condanna dell’antropocentrismo.
Nonostante un’attenta esecuzione e una grande sensibilità ai materiali, i suoi corpi non hanno né la straordinaria forza evocativa, né il potere plastico e trasformativo dello spazio delle figure sole di Giacometti (il paragone più ovvio che non può essere evitato per tutti coloro che hanno scelto di continuare a insistere sulla figura).
Gormley, però, come ogni artista intelligente, ha spostato altrove il modo di esistenza delle proprie figure.
Per attivarle, ha usato il potere dello spazio naturale e urbano, non solo come supporto ma come parte integrante del lavoro, inventando così un equilibrio originale.
Gli umanoidi di Gormley, in ghisa, alluminio, ferro o acciaio, di aspetto solido e denso o aereo, pixelato o frattale, ora espressionista, poi modernista, ed ancora impressionista, sono stati distribuiti ai quattro angoli del globo, in luoghi suggestivi, difficili da raggiungere o tipici, spesso altamente simbolici.
In questo strano mélange di land art e scultura tradizionale, le sue figure sono diventate, in parte, la personificazione di una retorica piuttosto sentimentale dai toni ora vagamente paternalisti e anche troppo celebrativi di gerarchie tradizionali (come per il gigantesco Angelo del Nord) ora più propriamente poetico-esistenziali in cui appaiono radici romantiche e simboliste (come le serie di figure in zone naturali remote e di difficile accesso come alcune spiagge del nord Europa, o l’outback australiano).
L’interesse dell’artista e la sua volontà di inserire costantemente elementi, e procedure provenienti dalla scienza e, in particolare, dalla fisica molecolare, si sono aggiunti agli aspetti precedenti, senza però mettere in discussione una logica e un’estetica tutto sommato di tipo consensuale.
Così, occupando uno spazio esterno a forte connotazione emotiva, le sue sculture funzionano, a mio avviso, non per la loro influenza sullo spazio, ma viceversa, cioè, per come lo spazio le «attiva», mettendo in valore anche la loro anonimità che da sola, non riesce ad essere così sintetica e profonda da diventare universale. (ancora una volta l’eco giacomettiano non perdona).
E da qui arriva l’interesse per un’opera come «Host», in cui la necessità dell’artista di imporre l’esistenza di queste figure si dissolve completamente nel brodo primordiale, reso, (attraverso il fatto di essere ricreato artificialmente in galleria), immagine di un sublime astratto ma pur sempre organico (anziché semplicemente concettuale).
Invece di portare le figure nello spazio fisico naturale, lo spazio naturale è ricostruito in quello istituzionale e le figure sono del tutto assenti.
«Host», che giocando con le forme rettangolari di luce create dalle finestre sovrastanti l’immenso spazio principale di Galleria Continua, ricorda, a tratti, la trasposizione tridimensionale di una tela di Mark Rothko, si definisce però come un «entità», un «ospite», appunto.
E così, usando il linguaggio per tornare a «impersonificarsi» nella dimensione semantica, Gormley non rinuncia del tutto e recupera l’unità antropomorfa, mentre sia quella formale che quella visiva sono abbandonate volontariamente e irrimediabilmente.
«Host» cancella però il gesto di auto-affermazione insito in ogni figura che Gormley ha installato sul pianeta e, nonostante il fatto che il brodo primordiale sia l’ambiente da cui può nascere la vita, niente lascia pensare che questa ipotetica nuova vita debba essere ancora «umana».
Non mi sembra difficile pensare che quest’opera potrebbe essere interpretata come una messa in discussione di tutto ciò per cui Gormley è conosciuto.
E, a meno che non si voglia cedere alla banalità di considerarla in maniera didattica, (secondo la logica di una «creazione spontanea» della vita con una promessa futura di umanità), può essere interessante azzardare un’altra lettura.
Potrebbe infatti esprimere il dubbio che attanaglia un artista che, pur non avendo più nulla da provare, esita e si confronta col pensiero che ciò per cui è stato riconosciuto possa essere del tutto inutile e irrilevante o addirittura una direzione sbagliata.
Da un altro punto di vista, «Host» mi fa anche pensare a come alcuni artisti a volte svelino, in un’opera, un diario o un’intervista, il loro desiderio nascosto di creare un altro tipo di arte o di essere un altro tipo di artista.
In questa possibilità e in questa «insicurezza», esiste una qualità che ha maggior presa nel convincermi della profondità della ricerca di Gormley, perché «Host» sostituisce la nostalgia (spesso pericolosa e superficiale) di una «affermazione» simbolica troppo invadente e autoreferenziale, con una situazione di «testimonianza» che risuona in maniera più ampia, complessa e presente.
In molte delle sue precedenti installazioni, tra cui anche la sua prima mostra nella sede pechinese di Galleria Continua, era già possibile vedere lo sviluppo di una sensibilità rivolta allo spazio in termini architetturali ma ancora subordinata alla messa in scena delle figure umane, la cui centralità era indiscutibile e che, invece, nel caso di «Host», funziona in maniera completamente diversa e aperta, quasi come se questa necessità non fosse mai esistita o a un certo punto fosse diventata superflua.
In questo «site of becoming» tutto si azzera in un processo di sottrazione che attraverso l’assenza, esprime in maniera più rarefatta e potente, una condizione umana che forse solo le sue figure mute potevano rappresentare.
Antony Gormley – «Host» – fino al 20 agosto 2016
Galleria Continua – Dashanzi Art District 798 #8503, 2 Jiuxianqiao Road, Chaoyang Dst.
FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]
* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.