FreeVantablack – Arte contemporanea e crisi dei migranti e dei rifugiati

In by Simone

Con l’intervento di oggi Alessandro Rolandi si allontana in parte dalla cronaca specificatamente «cinese» per discutere un argomento delicato: quello di come l’arte contemporanea si interessa al problema delle comunità dei migranti e degli emarginati, analizzando le opere di Ai Weiwei, Santiago Sierra, Tania Bruguera e Kristof Wodiczko.Prendo a prestito la grande retrospettiva di Ai Weiwei in corso ora a Firenze, che si concentra soprattutto su un intervento provocatorio sulla facciata di Palazzo Strozzi – la sovrapposizione di una serie di gommoni di salvataggio sulle finestre a riprenderne il rigore rinascimentale in maniera altrettanto severa, ma appunto, utilizzando un elemento architettonico, il gommone, capace di scatenare, col suo valore simbolico, un putiferio di commenti «di pancia» di tutti I tipi.

Allora, senza pretesa di voler difendere una posizione o un’altra, vorrei offrire ai lettori un ventaglio di proposte artistiche recenti diverse, in cui l’artista si fa portatore di un forte messaggio nei confronti di una comunità emarginata o in grave difficoltà, con obiettivi vari e complessi che possono andare semplicemente dall’attirare l’attenzione sul problema, fino ad esporne pubblicamente i risvolti più nascosti, dal documentarne e storicizzarne i fatti attraverso un’opera o un intervento artistico al provare ad avere un impatto reale sulla situazione, o addirittura ad utilizzarla come uno stunt pubblicitario per «denunciare» un mondo globale che spettacolarizza qualunque cosa, dal dolore alla banalità, recuperandole nel ben noto vortice ad altissima velocità della comunicazione di massa.

Ai Weiwei

Partiamo proprio da Ai Weiwei: dopo averlo visto in azione per tanti anni, secondo me, il suo modo di fare arte è ormai costruito attorno a quella che è stata la sua intuizione migliore, geniale e inattesa per qualcuno della sua generazione: la comprensione e l’utilizzo dei social media come mezzo di comunicazione «totale» e istantaneo di propagazione, denuncia, attivazione momentanea della storia e autopromozione.

Quando nel 2005 gli fu offerto di aprire un blog sull’allora debutante Weibo (versione cinese di Twitter, più o meno), dopo un primo momento di diffidenza, Weiwei capii subito come quello potesse essere uno strumento determinante per agire in maniera creative, provocatoria e sovversiva sulla società (quella cinese e quella occidentale). Da allora in poi, ogni azione, opera, documentario, mostra, installazione, azione o evento di cui l’artista cinese è stato protagonista è esistito, fisicamente e concretamente, ma anche e soprattutto, nella meticolosa, capillare e super strategica redistribuzione e amplificazione attraverso la documentazione sui social media.

Benché i suoi lavori ormai raggiungano una scala monumentale ed occupino musei, palazzi antichi e spazi pubblici, la loro natura a mio avviso è sempre più vicina a quella di un tweet, di un post o di una foto su Instagram, presi al momento giusto e condivisi al momento giusto.

Divenuto maestro di un’arte del «comment» pungente, dell’attimo che conta, della citazione che tutti più o meno attendono, chi per scagliarsi violentemente contro, chi per sciogliersi in un’adulazione sentimentalista, ha imparato a trasporre questa «qualità» anche nelle installazioni: sono grandi, colorate, facili da comprendere a prima vista, eccessive e in grado di scatenare riflessi emotivi rapidi e diretti.

Questo avviene per la maggior parte utilizzando oggetti della vita, semplici o particolari ma altamente «tipici», la cui apparizione genera automaticamente fermento perchè sono giò comunque nel nostro immaginario collettivo tramite l’informazione.

Questi oggetti vengono spesso moltiplicati fino a raggiungere una scala numerica e fisica notevole e quindi installati in un luogo che per definizione ne enfatizza il valore simbolico per la frizione creata riguardo alla dimensione sociale e/o politica, ma sempre in maniera da essere disponibile e facilmente veicolato dai media.

Ecco allora i giubbetti di salvataggio attorno alle colonne dell’opera di Berlino e le coperte di salvataggio distribuite al gala della serata di apertura per la cena dei vip.
Prima c’erano stati gli zainetti dei bambini morti nel terremoto del Sichuan ad adornare il museo di Monaco di Baviera. Ora ci sono i canotti sulla facciata di Palazzo Strozzi.
Nel mezzo, la posa sulla spiaggia greca, riprendendo l’immagine drammatica del bambino siriano morto sul bagnasciuga.

Ai Weiwei non usa mezze misure perchè il medium che predilige non le ammette: il comment, il like, il tweet si giocano in decisioni prese in frazioni di secondo che devono attirare l’attenzione, inferocire, far scattare il desiderio di ribattere, di retwittare, di insultare, di gioire o di lanciarsi anche in lunghi monologhi e scambi di opinioni a raffica.

In parte naturalmente predisposto, per personalità, a questo tipo di batti e ribatti adrenalinico, ora ironico, ora feroce, e in parte avendo imparato a sopravvivere in una Cina in cui cogliere l’attimo fuggente è spesso un gioco di vita e di morte, Ai Weiwei agisce creando dispositivi estetici ad alto impatto polemico ed emotivo che denunciano a voce alta quello che succede, senza lasciarsi intimidire, fregandosene delle sottigliezze, degli effetti collaterali e delle casualties lasciate sul terreno di battaglia.
Anche questo a mio avviso è un retaggio cinese, perchè comunque in Cina non e’ possibile esprimersi in maniera cosi’ «loud», pubblicamente, senza conseguenze spesso estreme.
Chi lo fa, perché ne ha il coraggio, a cui si aggiunge la consapevolezza di uno status sociale che garantisce un certo livello di manovra e un’intelligenza tattica per capire come questa manovra debba svilupparsi (la viralità e l’accelerazione della propagazione garantita dai social media, appunto) è comunque «diverso», e «uscendo dal coro» stabilisce un esempio di «contro-potere» (non di emancipazione) difficile da seguire, e ambiguo, ma pur sempre affascinante: il fuorilegge della palude ed il warlord, per via della loro determinazione ed astuzia, ma anche e soprattutto della loro «forza» sono capaci di sfidare il potere come nessun altro, al suo stesso gioco, perché sono sempre una mossa avanti, una di lato, o hanno un jolly nella manica.

Certo che quando questo atteggiamento basato sul «venire allo scoperto col dito medio» in maniera mediatica, virale e diretta si attualizza all’interno del caleidoscopio di immagini e opinioni della società occidentale, comunque aperta e abituata da tempo alla logica del «commento», il messaggio che ne deriva si trasforma in qualcosa di più perverso e ambiguo, in cui il confine tra la giusta causa e l’autocelebrazione diventa troppo sottile e inconsistente, e rischia di ricadere nella logica banale dell’épater le bourgeois.

Ritornando al rapporto con la causa dei migranti quindi, questo tipo di arte politica del commento onnipresente e dell’immagine shock (ma che in fondo ci aspettiamo) che diventano enormi installazioni può contribuire soprattutto al fatto di alimentare il dibattito globale nei salotti, nelle gallerie, e negli avvenimenti pubblici e ovviamente per tutto ciò che riguarda l’onnipresenza mediatica.

L’impegno personale diretto dell’artista cinese sulle isole greche, potrà sicuramente generare altri pattern, ma quello determinato dalle sue scelte artistiche, per ora, si è definito sopratutto in questa direzione dell’informazione.

Santiago Sierra

Rimanendo in termini di provocazione diretta, diverso è l’esempio dell’artista spagnolo Santiago Sierra, le cui azioni ed installazioni hanno spesso lasciato senza parole, scatenando anche violenza e ritorsioni legali, ma soprattutto sfidando qualsiasi tipo di pubblico con trappole in cui la logica della crudeltà e del dominio oltre ad essere esposti, costringono il pubblico ad esserne parte integrante indipendentemente dal fatto che ne esista la volontà.

Assumendo legalmente e pagando persone provenienti da classi sociali sociali in difficoltà o situazioni umanamente al limite per essere sfruttate o derise ulteriormente all’interno del meccanismo dell’arte, Sierra oltrepassa di gran lunga il limite di quello che l’arte provocatrice e politica ma accettabile «possono permettersi».

Pagando un gruppo di lavoratori la loro solita «giornata» per reggere uno dei muri pericolanti di una galleria per tutta la durata di un’opening, o un altro gruppo per compiere azioni inutili e umilianti, Sierra materializza davanti ai nostri occhi la contraddizione evidente dell’aver fiducia in un qualsivoglia potere catartico dell’arte, portando sempre e comunque tutti al tavolo della complicità esplicita o implicita, a fare i conti con la propria crudeltà dissimulata.

Recentemente, alla Lisson Gallery di Londra, l’artista ha assunto alcuni migranti iracheni e dopo aver fatto loro indossare l’apposito abbigliamento speciale di protezione, li ha letteralmente seppelliti spruzzandoli di poliuretano espanso.

Difficile rimanere indifferenti a qualcosa del genere, e magari anche continuare oltre al cocktail party, ma ancora più difficile se non impossibile, tentare di romanticizzare o sentimentalizzare un’azione del genere.

Anche Sierra agisce senza mezze misure, ma anziché sull’informazione, sulla realtà di ciò che fa attraverso l’arte – raramente le sue azioni possono veramente essere mediatizzate, la loro lucida e fredda logica senza compromessi le pone ai margini non solo di ciò che si può presentare, ma anche delle legalità stessa – rendendo difficile anche per la società dello spettacolo recuperare queste trasposizioni delle relazioni di potere e sfruttamento così brutali. Sierra ci lascia in mano ad un silenzio e ad un disgusto molto difficili da gestire e decisamente inaccettabili per la maggior parte di noi.
In questo senso la sua arte esprime un livello di radicalità molto spinto ed inquietante da cui è molto difficile distaccarsi sia esteticamente che intellettualmente.

Un atteggiamento simile pone l’artista in qualche modo al di là del bene e del male, con tutto ciò che questo comporta in termini etici, morali e filosofici.
Il riproporre le logiche che creano l’emarginazione rendendo evidente la complicità e appunto la crudeltà di tutti è spesso insopportabile per molti.

Tania Bruguera

Diverso ma altrettanto radicale è l’approccio alla causa dei migranti dell’artista/attivista cubana Tania Bruguera, anche lei impegnata da molti anni su vari fronti contro ogni tipo di imposizione autoritaria e ingiustizia nei confronti degli sfruttati e degli emarginati.

Mantenendo un atteggiamento fortemente militante e politicizzato vicino all’estrema sinistra marxista, Bruguera ha sviluppato vari progetti comunitari di tipo pedagogico-ideologico emancipante a lungo termine, rifiutando sponsorizzazioni se non accademiche, per agire sulle comunità traumatizzate rendendole in grado di organizzarsi socialmente e politicamente per opporsi alle forze di cui sono vittime.

Alternando azioni altrettanto provocatorie e radicali come quelle di Sierra, ma costruite spesso per esporre se stessa a limiti fisici ed azioni fortemente pericolose (come quando durante una conferenza alla biennale di Venezia, si puntò una pistola alla tempio e giocò un giro di roulette russa) ad altre inquietanti (come quando fece pattugliare la folla dei visitatori della Turbine Hall alla Tate Modern da poliziotti a cavallo) l’artista cubana ha scritto manifesti politici e creato organizzazioni per promuovere un’arte attivista e rivoluzionaria.

Uno dei suoi ultimi progetti a lungo termine che riguarda la causa dei clandestini costretti ad imbarcarsi è proprio il Partido del Pueblo Migrante con l’annesso «manifesto» dei migranti, con cui l’artista trasforma in maniera decisive la propria attività artistica in attività politica, assumendone le caratteristiche organizzative, formali ed estetiche.

L’approccio di Tania Bruguera, in cui appunto l’arte si dissolve nell’attivismo e nella lotta politica, si muove dalla zona dell’attenzione, dal commento critico e impegnato e dai tipi precedenti di provocazione, mediatica e violenta, facendo un passo in avanti nella direzione di una proposta forse utopica, ma costruttiva basata fondamentalmente sulla nozione di comunità, sul concetto di partecipazione e su una forma di educazione tramite cui ricreare una coscienza politica di classe.

Kristof Wodiczko

Per concludere voglio citare infine il lavoro, presentato, discusso ed esposto recentemente a Pechino, in occasione della prima Biennale di Media Art, del famoso artista polacco e attivista Kristof Wodiczko, da tempo professore prima al Mit Lab e oggi alla Gds di Harvard.

Anch’egli con alle spalle una lunga carriera da attivista e vincitore di numerosi riconoscimenti per il suo impegno pacifista (tra cui l’Hiroshima Prize), da parecchi anni a rivolto la propria attenzione al problema dei rifugiati e dei migranti a cui ha dedicato creazioni ed opere di vario tipo.

Uomo colto, attento e mosso da grande idealismo, passione e da una gentilezza profonda, dopo aver conosciuto la Polonia autoritaria satellite dell’Urss, ha partecipato con parecchi artisti, scienziati e attivisti della sua generazione al movimento internazionale per la pace e lo smantellamento delle armi nucleari nato dallo spirito della prima conferenza di Pugwash, nel 1957.

Nella sua recente conferenza pechinese, ribadendo l’importanza di concepire forme di arte, design e comunicazione che siano sempre più speculari e antitetici al modello dominante, superficiale e altamente competitivo (e quindi ancora «guerrafondaio») proposto dall’ideologia del capitalismo neoliberale, ha poi mostrato il proprio impegno nell’idea di proteggere la figura dell’«altro» , il rifugiato in fuga, da ogni tipo di umiliazione e segregazione, promuovendone e facilitandone in maniera creativa, pratica e poetica l’integrazione nelle comunità.

Da anni conosciuto per le sue proiezioni video nello spazio pubblico, (da quando a Londra, senza autorizzazione, proiettò una svastica gigante sull’edifico dell’ambasciata sudafricana, al tempo dell’apartheid), ricordiamo, tra i suoi lavori più belli, la grande proiezione pubblica sulla facciata della Kunsthalle Basel in cui l’immagine frontale delle gambe di alcuni giovani seduti in autobus o in metro tengono tutta la facciata dell’edificio, mentre, tramite potenti altoparlanti si può ascoltare nei loro discorsi, e nei ricordi degli episodi di vita citati, l’amarezza del sentirsi discriminate e diversi anche in un paese notoriamente civile come la Svizzera.

Passando per le proiezioni dei volti dei veterani di Guerra su alcune statue in piazza pubbliche di città americane, intervistati sulla loro condizione, alternate a quelli di donne vittime di violenze private, Wodiczko ci mostra poi veri e propri strumenti meccanici da adottare nella realtà: come la unit abitativa funzionale per gli homeless, il bastone «porte parole» ancora per i migranti, con lo schermo video per raccontare la propria storia (ispirato a Mosé e Aronne) ed attirare la curiosità della gente con umorismo e empatia, fino al mouth device per amplificare e rendere forte, piacevole ed interessante la voce di chi non ha voce.

Poetico e partecipativo, e sempre costruito a partire dall’incontro con uno o più individui, dal dialogo e dalla collaborazione, il lavoro di Wodiczko, fortemente ancorato nella tradizione idealista e pacifista della sua generazione, porta ancora in sé un elemento di speranza, forse naïve, nella capacità e nella volontà da parte degli esseri umani di accettarsi e condividere.

Nonostante l’artista riunisca in sé stesso le figure di un accademico riconosciuto, di un letterato stimato ed di un attivista di lunga data, nessuna di queste infrastrutture culturali e ideologiche sembra dominare o dirigere il modo in cui egli percepisce il proprio impegno.
Tutte queste competenze sembrano essere al servizio del tentativo di creare quell’incontro che può risolversi nell’accettazione e nella tolleranza.

Per quanto un tale approccio possa sembrare datato e troppo «soft» nella società in cui viviamo, ormai sempre più estrema e post-umanista, rimane comunque evidente, nel lavoro e nell’atteggiamento di Krzysztof, come gli artisti di quella generazione siano cresciuti con la consapevolezza, la volontà ed il desiderio di poter cambiare le cose e che ancora oggi siano pronti a scendere in campo non appena l’occasione si presenta.

Con questi esempi ho volute toccare brevemente e superficialmente alcuni degli aspetti che caratterizzano oggi l’impegno dell’arte e degli artisti nei confronti della società e specificamente del tema scottante dei migranti.

Mi sembra comunque importante che tutti questi approcci esistano, si scontrino e si completino o semplicemente funzionino su registri paralleli o lontani e che la loro risonanza ed il loro esempio inspirino sempre più i giovani artisti a uscire dagli studi e dalle gallerie e a provare a cimentarsi con le problematiche e le sfide della realtà che ci circonda.

FreeVantablack è la rubrica sull’arte di China Files, a cura di Alessandro Rolandi. Ogni due settimane, una mostra, un’installazione, una performance o anche solo uno spunto dall’ampio e variegato mondo dell’arte cinese saranno vivisezionati dall’occhio critico e iconoclasta del nostro artista/critico preferito.
«Vantablack è un colore nero realizzato con strutture di nanotecnologia, che assorbe la luce in percentuale altissima, rendendo ogni cosa che ne sia ricoperta quasi completamente bidimensionale all’occhio dell’osservatore. Qualche mese fa, il famoso artista inglese di origine indiana Anish Kapoor ha acquistato i diritti d’autore per l’uso artistico del vantablack, rendendolo inaccessibile a chiunque, pena multe e processi, senza il suo consenso o senza che lui ne ricavi un profitto. Essendo questa una delle azioni più inutili e assurde che siano mai accadute, mi è sembrato giusto chiamare una rubrica d’arte con questo nome, per ricordare che la creatività e le idee non dovrebbero mai e in nessun modo essere censurate, o limitate, né dalla violenza degli organismi autoritari, né da quella più dissimulata, ma non per questo meno oppressiva, della celebrità e degli strumenti legali ed economici.» [A.R.]

* Alessandro Rolandi ha studiato chimica, teatro sperimentale, cinematografia e storia dell’arte. Vive a Pechino dal 2003 dove lavora come artista multimediale e performativo, regista, curatore, ricercatore, scrittore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’intervento sociale e le dinamiche relazionali, con lo scopo di ampliare la nozione di arte oltre le strutture, gli spazi e le gerarchie esistenti, attraverso l’impegno diretto con la realtà, in diversi modi. Ha fondato il Social Sensibility Research & Development Department di Bernard Controls Asia e collabora regolarmente con diverse riviste e siti: Hyperallergic, Randian, Asialyst.