Tre anni fa The Raid: Redemption era stato accolto come uno dei film più rivoluzionari nel genere action. Il regista, il gallese Gareth Evans, torna con un seguito adrenalinico ed emozionante. The Raid 2: Berendal ci porta tra combattimenti mozzafiato e lotte senza esclusione di colpi tra clan mafiosi per il controllo di Jakarta. Quando, nel 2011, uscì nelle sale il primo capito di The Raid: Redemption, diretto dal regista gallese Gareth Evans e girato in Indonesia, si concordò unanimemente che lo standard del cinema d’azione fosse cambiato.
The Raid: Redemption, oltre ad essere stata una delle più grandi sorprese cinematografiche del 2011, ha di fatto segnato una cesura dagli stilemi ormai codificati del genere action hollywoodiano, ponendosi come uno dei migliori film d’azione di sempre per intensità, drammaticità, rappresentazione della violenza e dinamiche del combattimento. Visto il successo sia di critica che di pubblico di The Raid: Redemption, l’annuncio di un sequel lasciò gli spettatori con tante aspettative quante perplessità circa la riuscita di un film che potesse tenere testa al suo predecessore.
E Gareth Evans non ha deluso il suo pubblico, rincarando anzi la dose nello spingere i limiti del cinema d’azione ancora più in là.
The Raid 2: Berendal nasce da una sceneggiatura del 2010, la cui produzione venne posticipata per limiti di budget e sostituita con una storia di più facile rappresentazione scenica (appunto The Raid: Redemption). Con un budget di $4,5 milioni contro i $1,1 milioni del primo film, Evans ha deciso di collegare le due storie anziché sviluppare il copione iniziale come soggetto autonomo. Intrecciando la storia dei due film tramite un pretesto iniziale, la trama di The Raid 2 si sviluppa autonomamente senza scadere in contraddizioni diegetiche.
Rama (Iko Uwais), uscito illeso dopo aver compiuto una carneficina di malavitosi durante un’operazione di polizia, si reca da Bunawar, un poliziotto onesto raccomandatogli dal fratello, il quale gli spiega che suo malgrado dovrà infiltrarsi nella banda del boss malavitoso Bangun. Quest’ultimo esercita il suo potere su mezza Jakarta, e anche sull’organizzazione criminale di Tama che Rama ha provveduto a sterminare nel primo film.
Al fine di mettere in salvo se stesso e la sua famiglia, Rama deve eliminare tutte le persone che possano collegarlo all’omicidio di Tama. A questo punto le premesse che uniscono i due film si esauriscono e la storia si sviluppa seguendo le faide e le guerre intestine delle bande mafiose.
Nonostante il film non proponga una rilettura troppo originale delle classiche epiche gangster orientali (ricordando per certi versi Outrage di Kitano Takeshi e New World di Park Hoon-Jung) si discosta completamente da queste in termini strutturali, ponendo la trama a funzione di cornice, atta piuttosto a giustificare le spettacolari scene di combattimento che rappresentano il corpo centrale dell’intera opera.
E l’azione, che viene raffigurata tramite un’apoteosi di violenza, si sviluppa fin dal principio senza climax nei più disparati scenari possibili: da una sequenza uno-contro-tutti ambientata interamente all’interno del box di un bagno, a una sequenza tutti-contro-tutti tra il fango nel cortile di una prigione, fino a un lunghissimo uno-contro-uno finale che, sia dal punto di vista coreografico che drammatico, sancisce definitivamente la preminenza atletica degli attori e la maturità artistica del regista.
La dose di adrenalina, la tensione drammatica e il virtuosismo stilistico dei combattimenti dai quali lo spettatore viene travolto, fanno di The Raid 2: Berendal un lavoro unico nel suo genere; genere che, peraltro, non fa perno su una continuità cinematografica autoctona (come nel caso del cinema action americano o di Hong Kong), ma esclusivamente sul talento del suo regista e dei suoi attori.
The Raid 2: Berendal, inoltre, non scade nella classica divisione manichea dei personaggi tra “buoni” e “cattivi”, insistendo invece sui lati più tragici della personalità dei nemici. Uco (figlio di Bangun) è afflitto dai rapporti di soggezione/potere nei confronti del padre, Prakoso, sicario al soldo di Uco e interpretato dall’abilissimo Yayan Ruhian (già presente nel primo film nei panni di “Mad Dog”), è ritratto nel suo dramma familiare, e il sicario coinvolto nello scontro finale giustifica la sua esistenza in quanto atta all’etica del combattimento.
Infine, quest’ultimo tratto denota tutti i nemici con quello zelo marziale che porta loro al totale abbandono delle armi da fuoco in virtù dell’utilizzo di mani, piedi, gomiti, od oggetti più o meno contundenti come mazze e palle da baseball, martelli utilizzati da ambo i lati, falcetti, e vari oggetti di mobilio assortiti.
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[Foto credit: buddyhead.com]
*Jacopo Bortolussi si occupa di studi culturali del Giappone. Si è laureato in lingue orientali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha studiato successivamente in Giappone e presso l’Università di Leeds, specializzandosi in avanguardie artistiche nel Giappone del dopoguerra.