Ev-olution. Un processo più lento del previsto

In by Simone

Nell’auto elettrica cinese ci avevano creduto in tanti. Ma il colossale progetto si è impantanato in una palude di interessi politici ed economici contrapposti, sopra la quale si erge un groviglio burocratico difficilmente districabile.
Quando nel 2008 il multimiliardario statunitense Warren Buffett acquistò il 10 per cento della Byd, tra i maggiori produttori di automobili e batterie della Cina, furono in molti a interpretare questo segnale come l’avvento di una nuova era nella storia dell’umanità.

Per tutti, o quasi, gli addetti ai lavori questa acquisizione aveva un significato inequivocabile: l’era dei veicoli a benzina era ormai agli sgoccioli e presto l’intero pianeta avrebbe assistito alla rivoluzione delle auto elettriche.

A guidare questa svolta epocale sarebbe stato ovviamente il Dragone cinese, pronto a invadere il resto del mondo con vetture ipertecnologiche alimentate esclusivamente dalla corrente elettrica. Macchine silenziose, efficienti e, soprattutto, molto, molto poco inquinanti.

Di lì a poco le già elevate attese furono ulteriormente gonfiate dal governo di Pechino, che annunciò in pompa magna un piano nazionale specificamente incentrato sugli Electric vehicles (Ev), destinati a divenire nel giro di qualche anno uno dei settori di punta dell’industria cinese.

La ciliegina sulla torta fu messa infine da Wan Gang, il ministro per la scienza e la tecnologia, che dichiarò che la Cina avrebbe prodotto entro il 2020 un milione di auto elettriche l’anno. Oggi, a soli tre anni di distanza, l’Ev revolution annunciata dal Paese della Grande Muraglia è ridotta a poco più di uno slogan al quale la stessa dirigenza del partito comunista sembra faccia fatica a credere.

Il colossale progetto si è impantanato fino alle spalle in una palude fatta di interessi politici ed economici fortemente contrapposti, sopra la quale si erge un groviglio burocratico fitto e difficilmente districabile. Forse, meglio di ogni altro, proprio il caso della Byd può essere usato come esempio per illustrare lo stato di forte incertezza in cui versa il settore delle auto elettriche in Cina.

Il suo prototipo di punta, la E6, da pochi giorni messa in vendita al pubblico cinese, è stato pubblicizzato in tutto il mondo come l’ultima frontiera degli Ev. Una macchina capace di viaggiare a 160 chilometri orari, con una batteria da 72 kilowattora (la più grande mai montata su un veicolo elettrico), ricaricabile in poco tempo e in grado di assicurare un’autonomia di 300 chilometri.

Numeri sensazionali, che tuttavia, come hanno notato non pochi esperti, sommati tra loro portano a un conto senza l’oste. Questo “elettrogioiello” costa infatti circa 40mila euro, una cifra che, anche ridotta di 7mila euro grazie alle agevolazioni sotto forma di contributi statali e locali previsti dalla legge, è molto lontana dalla capacità di acquisto di un cittadino cinese medio.

A ciò si aggiungono una serie di difficoltà economiche con cui la Byd è alle prese: Bloomberg ha rivelato che l’azienda sta progettando l’emissione di 1 miliardo di dollari di obbligazioni per far fronte ai debiti dovuti al calo delle vendite dell’ultimo periodo. E BusinessWeek ha rilanciato sottolineando che l’annunciato sbarco della società negli Stati Uniti (previsto per metà ottobre) sarà posticipato di 18 mesi.

L’impresa ha provato a dare la colpa del ritardo alla mancanza di infrastrutture per la ricarica elettrica sul territorio Usa, ma l’unico effetto ottenuto è stato quello di attirare i sarcastici commenti della stampa specializzata, che ha avuto gioco facile nel dimostrare l’infondatezza di una simile giustificazione.

Byd a parte, è tutto il settore cinese degli Ev che appare in stasi. «Entro l’anno prossimo Pechino triplicherà la sua flotta di taxi elettrici», ha titolato di recente il China Daily, tentando di allontanare un po’ il torpore cui sembrano ormai essersi abbandonate le imprese e le case di produzione delle auto a batteria.

Il confronto con i numeri non possono non suscitare una certa ilarità: entro maggio del 2012, scrive il giornale, i taxi elettrici passeranno da 50 a 150. Un nugolo di mosche bianche in una città che conta 20 milioni di abitanti.

E neanche le argomentazioni ambientaliste avanzate da più parti sembrano sortire effetti migliori: sostenere che l’introduzione di veicoli a batteria potrebbe contribuire a mitigare l’inquinamento atmosferico che soffoca molte città significa non tenere conto del fatto che l’economia cinese è alimentata a carbone, principale mezzo utilizzato per la produzione di elettricità.

Così qualsiasi beneficio per l’ambiente derivante dalla riduzione del consumo di carburante rischia di essere vanificato dal parallelo incremento dell’uso del combustibile fossile, in un’equazione in cui il valore finale della CO2 che il Dragone continua a sbuffare dalla sue narici resterebbe sostanzialmente invariato.

A creare ulteriori problemi è la forte contrapposizione di interessi tra tutti gli attori coinvolti nel progetto Ev. Attirate dai milioni di finanziamenti al settore promessi dal governo per i prossimi anni, le società automobilistiche private hanno già creato una propria associazione per le auto elettriche.

Una mossa che ha scatenato l’immediata reazione delle grandi imprese statali, che non hanno ovviamente alcuna intenzione di restare a guardare e che hanno risposto con l’istituzione di un’unione che include un colosso del calibro della State grid corporation of China, la più grande compagnia di distribuzione elettrica al mondo, e i due giganti del petrolio China national petroleum corporation e Sinopec.

Le due compagnie petrolifere controllano infatti la maggior parte dei distributori di benzina del Paese e condividono il progetto di riconversione delle pompe in stazioni per la ricarica elettrica. Un affare che, se si concretizzasse, potrebbe aprire il rubinetto di introiti a nove zeri, cui nessuno intende rinunciare in via preventiva.

Su tutto questo si innesta il tentennante atteggiamento del governo, il cui fervente supporto iniziale allo sviluppo degli Ev si è notevolmente smorzato negli ultimi mesi. Se da un lato l’esecutivo ha approvato incentivi per l’acquisto dei veicoli a batteria, disponendo anche, nel caso di Pechino, che possano bypassare il sistema della “lotteria delle targhe”, dall’altro le spaccature che dividono la dirigenza del partito sono sempre più evidenti.

Tanto che durante la conferenza annuale dell’Associazione cinese per la scienza e la tecnologia il premier Wen Jiabao ha ammesso apertamente che i vertici del Partito non hanno un’idea univoca sul futuro che il settore delle auto elettriche ha davanti e che vi sono ancora molte questione collegate alle strategie di sviluppo che devono essere discusse.

Parole che spiegano per quale motivo il piano nazionale per lo sviluppo dei veicoli ad energia alternativa (noto con il pomposo nome di China’s energy saving and new energy vehicle development plan) annunciato per quest’anno non sia ancora stato presentato.

A questo riguardo un recente sondaggio congiunto dell’automobile research institute e di Gasgoo.com ha evidenziato che solo il 23% degli addetti ai lavori crede che il piano sarà pronto entro la fine dell’anno prossimo. E in ogni caso il 60% degli intervistati ritiene che, comunque, gli standard introdotti non si discosteranno in misura significativa da quelli già presenti in altri Paesi.

Anche il governo appare dunque bloccato. Tornare indietro a questo punto è impossibile, ma anche l’annunciato scatto in avanti sembra improbabile. Quello che è certo è che l’Ev revolution, almeno per il momento, è stata archiviata. Quello che resta da verificare è se la Cina saprà portare avanti una più modesta, ma certo più realistica, Ev-olution.

[Pubblicato da Linkiesta]

* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti