Ad Hong Kong, tutti i cittadini stranieri con regolare permesso di lavoro dopo 7 anni possono ottenere la residenza. Tutti, o quasi. Le ayi, le domestiche, filippine o indonesiane, infatti, sono giuridicamente cittadine di "serie b". E continuano a vivere in condizioni di povertà in una città sovrappopolata. Qualsiasi straniero a Hong Kong, provvisto di regolare permesso di lavoro, dopo sette anni ottiene la residenza nell’ex colonia britannica. Succede a tutti, o quasi, perché le domestiche filippine e indonesiane non entrano in questa categoria: hanno una cittadinanza “minore”. E la constatazione non è solamente sociale, perché la Corte d’Appello di Hong Kong due giorni fa lo ha decretato all’unanimità con una sentenza (che conferma una già precedente decisione).
Evangeline Banao Vallejos, madre di cinque figli, vive ad Hong Kong dal 1987. Insieme a tante altre – esistono anche organizzazioni che hanno provato a sindacalizzare la categoria – ha raccontato come vivono: lavoro spesso completamente dedicato anche per 16 ore al giorno, perché il contratto di assunzione prevede che la colf viva nella casa in cui esercita le proprie attività.
Solitamente vengono fatte stare in bugigattoli, stanze piccole o ricavate da antri minuscoli, sempre a disposizione, spesso per funzioni non previste dal proprio contratto e molte volte finiscono anche per essere vittime di episodi di violenza domestica.
La legge prevede che abbiano un giorno di festa alla settimana, un viaggio all’anno per tornare a casa pagato dai propri datori di lavoro e uno stipendio minimo che si aggira sui 3920 dollari di Hong Kong (poco più di 400 euro). La loro vita è misera, distanti da casa e senza la possibilità di essere raggiunti dai famigliari.
L’abitudine di avere in casa una domestica secondo Jason Y Ng, noto blogger di Hong Kong e columnist sul South China Morning Post, rappresenterebbe un vezzo, figlio dei retaggi del periodo coloniale britannico della città. Negli anni ’70 però Hong Kong decise di puntare sui servizi, invitando le proprie donne ad entrare nelle fila della forza lavoro.
Questo passaggio avrebbe provocato la necessità di affidare i lavori di accudimento della casa e dei figli delle famiglie autoctone alla manodopera femminile proveniente dall’estero, in particolare filippina e indonesiana. Queste due ultime nazionalità sarebbero la gran maggioranza delle oltre 300 mila domestiche straniere presenti a Hong Kong.
Soprattutto per chi vive in Cina, una gita o un soggiorno ad Hong Kong rende l’idea circa una società multietnica, una città percorsa da ogni tipo di persone, proveniente dai luoghi più strambi al mondo. La verità però è che i cittadini di Hong Kong si sentono stretti nella loro casa e specie rispetto alle domestiche straniere, la decisione della corte di giustizia ha pienamente rappresentato il sentimento comune.
In realtà l’ansia degli abitanti di Hong Kong circa la possibilità che un’eventuale residenza garantita dopo sette anni alle domestiche, possa finire per favorire un’immigrazione di massa da parte degli abitanti dei paesi meno sviluppati dell’area asiatica, sembra non avere una giustificazione.
Almeno secondo gli attivisti e le tante filippine e indonesiane che hanno contestato la decisione della corte di Hong Kong: solo poco più di un migliaio delle domestiche nel 2011 ha fatto richiesta di cittadinanza, secondo i dati del Dipartimento di Immigrazione.
La ragione, secondo un avvocato che ha portato avanti la causa delle lavoratrici, per quanto riguarda le Filippine sarebbe da riscontrare nell’agilità dell’economia del paese di origine. Un tasso di crescita del 7 percento spinge molte di loro a tornare nel proprio paese d’origine, appena raggranellato un gruzzolo sufficiente.
"Siamo già completamente imballati con 7 milioni di persone", ha spiegato Joseph Law della Hong Kong Employers of Domestic Helpers Association, "come possiamo rispondere a tale esigenza? Sarebbe un onere insostenibile". Law si riferisce non solo allo spazio vitale, ma anche ai costi che nuovi residenti significherebbero in termini di tasse.
In realtà quello che rappresenta un istinto di auto sufficienza e godimento dei benefici della città di Hong Kong, finisce per essere una frustrazione che si scaglia contro i più sfortunati (in questo caso le donne filippine e indonesiane) come reazione ad un’insofferenza dei cittadini dell’ex colonia britannica nei confronti dei loro connazionali, i cinesi continentali.
Dal 1997 quando la Cina riebbe indietro dalla Gran Bretagna Hong Kong (dopo le mediazioni tra la Thatcher e Deng Xiaoping e il lancio della dottrina, “un paese due sistemi”) i bambini cinesi che nascono ad Hong Kong diventano residenti e godono del sistema educativo locale (12 anni di scuola gratuita) e la possibilità di viaggiare nel paese senza avere bisogno del visto (contrariamente a quanto accade con passaporto cinese).
Questo ha creato un esodo di massa delle donne cinesi ad Hong Kong per partorire, dando vita a numerose proteste da parte degli abitanti della città che già mal soffrono la presenza dei tanti continentali (definiti dispregiativamente le “cavallette”) che a causa del loro status di nuovi ricchi scorrazzano per le vie dello shopping di Hong Kong.
Pare che nel 2012 su dieci neonati ad Hong Kong, quattro fossero cinesi. E la polemica è scattata immediata. A gennaio dello scorso anno gli abitanti di Hong Kong hanno anche organizzato delle proteste, indicando chiaramente di non voler pagare loro il welfare dei tanti cinesi nati nella città, con il rischio per altro della paralisi dei sistemi ospedalieri e degli asili nido.
Gli abitanti di Hong Kong definirono i cinesi “cavallette” e qualche cinese non la prese affatto bene. Il professor Kong Qingdong dell’università di Pechino, noto nazionalista, in un talk show era sbottato: "i cittadini di Hong Kong sono dei bastardi, sono solamente dei cani al servizio del governo britannico". Risultato: tentativi di placare gli animi, si stabilì un numero limite di nascite ma la polemica non si placò e nell’istanza conservatrice di Hong Kong, sono finiti un po’ tutti, comprese le domestiche filippine.
E in Cina? In Cina la figura dell’ayi (zia, domestica) è una sorta di istituzione, una professione mai in crisi. In certi compound le ayi sono date per scontato e fornite direttamente dall’organizzazione e rifiutarle significa fare la figura dello straniero disadattato o presuntuoso, o in ogni caso poco malleabile alle tradizioni locali.
Molte donne che accudiscono la casa (pulizia, ma anche la spesa, cucina, accudimento dei figli e una naturale propensione alla curiosità che costituisce la caratteristica suprema delle ayi made in China) anche nella Cina continentale cominciano ad essere provenienti dalle Filippine, ma non sono certo al centro di una battaglia specifica. Il problema per la Cina è un altro. Intanto in Cina si accede con un visto (turistico, di lavoro, di affari, di ricongiungimento famigliare, giornalistico) e ottenere la residenza da queste parti è qualcosa di talmente complicato che probabilmente neanche i cinesi saprebbero spiegarlo in modo chiaro e semplice.
Un anno e mezzo fa però la Cina ha lanciato la “campagna dei 100 giorni” contro gli stranieri irregolari. Un’iniziativa sostenuta in modo aggressivo anche da alcuni volti noti della televisione di stato (che parlarono di "cacciare via la spazzatura e i cialtroni stranieri" e diedero esplicitamente della "troia" a Melissa Chan, giornalista di Al Jazeera all’epoca espulsa dal paese), che fece urlare allo scandalo tanti expat.
In realtà la campagna consisteva in una necessità del paese che non era certo rivolta contro i tanti stranieri provenienti dal primo mondo, che portano di fatto ricchezza e know how, quello di cui ha bisogno la Cina. Negli ultimi anno nel paese della Grande Muraglia, piuttosto, si è assistito ad una immigrazione massiccia (secondo i quotidiani cinesi nel 2011 sarebbero stati 54 milioni gli stranieri arrivati in Cina, il doppio di dieci anni prima) proveniente dai paesi dell’area asiatica, di forza lavoro poco qualificata spesso impiegata in nero e senza regolari permessi.
Contro questo tipo di immigrazione è partita la campagna dei cento giorni, che si è infine concretizzata in un numero di controlli vagamente superiori alla norma, più propaganda che altro, ma che ha dato un segnale molto importante, riguardo le volontà di Pechino: sì ai "talenti", no a forza lavoro poco qualificata.
Quella ormai, come faceva con i prodotti, la Cina la esporta. Basta chiederlo all’Africa.
[Scritto per Linkiesta; foto credits: scmp.com ]