La strada per un concreto trasferimento di responsabilità alle donne in ambito lavorativo in Giappone appare ancora piuttosto lunga e tortuosa. Il processo di empowerment si scontra con una tradizione della "brava moglie e madre saggia" dura a morire. Ma – racconta Marco Zappa da Tokyo – qualcosa si sta muovendo.
La scorsa settimana è uscito nelle sale giapponesi Miss Hokusai un lungometraggio animato diretto dal regista Keiichi Hara. Tratto da un manga uscito negli anni ’90 – Sarusuberi, di Hinako Sugiura. Ambientato in epoca Edo, pochi anni prima della restaurazione imperiale e dell’inizio della modernizzazione del Giappone nella seconda metà del 1800, il film segue la vicenda di una delle figlie del maestro delle stampe giapponesi, nonché sua assistente e artista a sua volta.
Affermatasi come disegnatrice di stampe erotiche e figure femminili, Oei non rientra nello stereotipo giapponese di brava moglie e madre saggia diffuso nella sua epoca. Una donna anzi che segue la propria carriera, tenta di migliorare il proprio lavoro giorno dopo giorno, non smette di affermare la propria superiorità tecnica ai colleghi uomini. Una donna insomma, che il regista, nella presentazione al Japan Foreign Correspondent Club di Tokyo, non ha esitato a definire “rock”. Per i suoi tempi, ma non solo. Il film non poteva infatti uscire in un periodo migliore per quello che riguarda la condizione delle donne in Giappone.
Nonostante gli sforzi del governo di Tokyo per aumentare la loro partecipazione nella forza lavoro, in particolare a livello manageriale, le donne giapponesi sembrebbero non interessate a un’eventuale carriera manageriale. Un recente sondaggio, condotto su un campione di oltre mille donne, rivela infatti che appena il 24 per cento delle partecipanti al sondaggio sarebbero disponibili ad assumere la dirigenza dell’azienda in cui sono attualmente impiegate. I motivi per cui 3/4 delle donne giapponesi non hanno uguali aspirazioni sono illustrati in un interessante articolo del Nikkei Shimbun. A spiccare sono la mancanza di fiducia nelle proprie capacità di leadership, l’insicurezza riguardo il trovarsi da sola al comando, l’assenza di modelli di riferimento e le lunghe ore di lavoro.
Come spiegato nell’articolo del principale quotidiano economico del Sol Levante, il risultato del sondaggio della Hito Intelligence arriva a pochi giorni dalla pubblicazione di un rapporto del Fondo monetario internazionale che ancora una volta invita il Giappone a intraprendere riforme strutturali per favorire le pari opportunità in campo lavorativo. riforme sempre più urgenti visto il tasso d’invecchiamento record della popolazione giapponese e il conseguente crollo del numero dei lavoratori – entro il 2030, dicono le stime, il Giappone perderà quasi il 20 percento dell’attuale forza lavoro – senza contare l’enorme impatto sulla spesa pubblica per sanità e pensioni, che quest’anno toccherà un nuovo massimo.
I numeri del sondaggio non danno certo ragione al governo di Tokyo. Sono almeno due anni che l’amministrazione guidata dal conservatore Shinzo Abe tenta di proporsi come forza di rinnovamento anche in questo ambito. Il primo ministro giapponese, da quando è tornato in carica a dicembre 2012, ha più volte ripetuto che le donne sono la risorsa meno sfruttata del Paese e che è sua intenzione uscire dall’impasse. Entro il 2020, questo è l’obiettivo del governo, la percentuale di donne manager nelle aziende giapponesi dovrà essere il 30 per cento del totale. Per dare il buon esempio, nel rimpasto di governo di settembre 2014, Abe aveva nominato ben cinque donne, eguagliando il suo “mentore” Jun’ichiro Koizumi, premier dal 2002 al 2006.
Una “svolta” durata appena poche settimane: due delle neo-nominate ministre si sono dimesse dopo rivelazioni della stampa circa un loro coinvolgimento in scandali elettorali; poi le elezioni di dicembre hanno portato alla formazione di un nuovo gabinetto con quattro donne, di cui una, Haruko Arimura, incaricata del “women empowerment”.Il programma dell’attuale governo appare ambizioso, ma sembra guardare più alla superficie del problema piuttosto che a alle sue radici. La “womenomics” di Abe ha finora avuto un carattere populistico e ha interessato una piccola percentuale di donne lavoratrici – quelle già in posizione dirigenziale – e non la maggioranza di loro, ancora alle prese con disparità di trattamento e retaggi culturali duri a morire.
Come ha spiegato la giornalista Madoka Nakano all’Huffington Post Japan, quando si parla di donne lavoratrici, sarebbe di primaria importanza prevenire la dispersione di "valore" umano. Oltre il 60 per cento delle lavoratrici giapponesi lasciano il proprio posto di lavoro dopo la prima gravidanza- Secondo Nakano, giornalista e attivista, sono necessari interventi a tutela della cosiddetta “generazione del congedo maternità”, che comprende le donne che non vogliono abbandonare il lavoro dopo il primo figlio. In particolare per quanto riguarda la filosofia aziendale ancora dominante in Giappone secondo cui chi lavora più di tutti ottiene migliori performance e chi invece si ferma – anche per crescere un figlio – è perduto. La produttività, spiega ancora la giornalista, non dipende tanto dalla quantità di ore, quanto dalla qualità.
“Sarebbe più importante, dal mio punto di vista, che siano persone che sanno ‘prendersi cura’ a entrare nei posti dirigenziali (…) è la cura, infatti, ad essere decisiva soprattutto in settori come il management aziendale o il marketing”. L’idea è che le donne, con le loro esperienze professionali e intime di cura dei figli, possano contribuire alla “biodiversità” aziendale e quindi contribuire positivamente allo sviluppo del business. “Aumentare il numero di donne manager – conclude Nakano – non aumenterà il grado di expertise dell’azienda o la produttività di un team. Aumentare la quantità e la diversità di esperienze invece sì”.
Per ora "empowerment" rimane solo una parola come le altre.
[Scritto per East online; foto credit: bloomberg.com]