Domenica prossima gli elettori giapponesi saranno chiamati alle urne per eleggere metà dei rappresentanti della Camera alta. Saranno elezioni per molti aspetti di rottura con il passato. Ma a incidere, come sempre, sarà il voto delle campagne, tradizionalmente legato al partito del premier Abe. In Giappone, i manifesti elettorali non scompaiono mai, anche quando i cartelloni bianchi montati prima del voto vengono tolti. Dai vicinati dei distretti di Tokyo alle piccole cittadine di provincia, la vita quotidiana di milioni di giapponesi si svolge tra i sorrisi e gli sguardi dei politici locali incollati sui muretti. Molti non ci fanno neanche caso, tanto sono ormai integrati nell’ambiente circostante.
Il sistema elettorale giapponese favorisce questo fenomeno. Basti pensare che tra il 2000 e il 2016 — comprese quelle del 10 luglio prossimo — ci sono state 12 elezioni, una ogni 1,3 anni. Alle elezioni per la Camera bassa del parlamento — quelle che determinano poi la nomina di un governo che si tengono per costituzione ogni 4 anni — si alternano quelle per la Camera alta — ogni 3 anni.
Queste ultime sono una sorta di elezione di medio termine: non determinano automaticamente la nascita di un nuovo esecutivo, ma danno comunque un’indicazione dell’opinione dell’elettorato su quanto fatto dal governo in carica. Nel 2007 fu proprio un risultato negativo alle elezioni della Camera alta a determinare le dimissioni del primo governo Abe e ad aprire la strada verso il primo governo monocolore del Partito Democratico (oggi all’opposizione) nel 2009.
L’attuale primo ministro giapponese, Shinzo Abe, pare riservare estrema importanza alla prossima tornata elettorale. L’obiettivo è arrivare a controllare, con l’alleato di coalizione Komeito, espressione politica della setta buddhista Soka Gakkai, i 2/3 della Camera alta per procedere alle riforme costituzionali — soprattutto in tema di difesa — su cui da tempo insiste il premier.
Come sempre, il Partito Liberal Democratico (Pld) spera nel suo tradizionale bacino di voti: le campagne.
È qui — dove vive grossomodo il 7 per cento dei giapponesi — che, dal dopoguerra ad oggi, il Pld è riuscito con sapienza politica a costruire una base elettorale quasi incrollabile, in grado di tenere botta per più di cinquant’anni e far convergere milioni di voti verso la piattaforma conservatrice grazie a un sistema clientelare alimentato dal protezionismo tariffario del governo — negli ultimi 70 anni quasi sempre di colore Pld — nel settore dell’agroalimentare.
Da qualche anno ormai, il meccanismo sembra però essersi inceppato. La popolazione rurale si è ridotta sensibilmente negli ultimi 25 anni e le politiche del governo di Tokyo puntano in direzione opposta agli interessi degli agricoltori. A fine 2015, il Giappone ha firmato con altri 11 paesi l’accordo sulla Trans-Pacific Partnership (Tpp) impegnandosi a tagliare le tariffe sul 95 per cento dei prodotti importati.
Oggi più che mai c’è un dibattito acceso nelle associazioni agricole del paese. Il rischio è che, una volta entrato in vigore il Tpp, i prezzi dei generi alimentari crollino, a causa dell’immissione sul mercato di prodotti stranieri più economici, determinando perdite per i coltivatori locali.
Il governo difende l’adesione al trattato di libero scambio: grazie al Tpp i produttori giapponesi avranno accesso al mercato del Pacifico e contribuiranno a far crescere l’economia del Sol levante. Per molti agricoltori, però, solo i pochi che hanno sufficienti risorse per permettersi di investire in comunicazione e pubblicità ce la faranno.
I leader delle associazioni agricole si sentono «traditi» dal governo e prendono di mira singoli esponenti del Pld che dopo anni di campagna anti-Tpp, oggi, dai loro incarichi nell’esecutivo, difendono l’accordo. Tanto che, in alcune province agricole del Nordest del paese — alcune già messe in ginocchio a causa dagli effetti dell’incidente nucleare di Fukushima — agli agricoltori sono giunti appelli dalle associazioni locali a dare una lezione al Pld alle urne.
La decisione dei partiti di opposizione di convergere su un solo candidato potrebbe rivelarsi una scelta fruttuosa in questo senso. L’attuale sistema elettorale prevede infatti l’elezione di un candidato unico in 32 province su 47. in molte località, il Pld potrebbe essere sconfitto e non raggiungere l’obiettivo dei 2/3 dei seggi.
[Scritto per Eastonline]