Mahmudabad

Elefanti a parte – Professore musulmano arrestato per un post sui social

In Asia Meridionale, Elefanti a parte by Matteo Miavaldi

Domenica 18 maggio la polizia dello stato dell’Haryana ha arrestato il professor Mahmudabad nella sua casa di New Delhi con l’accusa di sedizione e incitamento all’odio intercomunitario. Il motivo? Un post su Facebook in cui l’uomo esprimeva alcune perplessità circa la conferenza stampa delle forze armate indiane all’indomani dell’operazione Sindoor, l’offensiva aerea che secondo New Delhi avrebbe neutralizzato nove obiettivi strategici in territorio pachistano in qualche modo collegate alle cellule terroristiche islamiche attive nel paese.

È passata poco più di una settimana dall’escalation militare tra India e Pakistan, chiusa con un cessate il fuoco che sembra tenere, ma gli strascichi politici nel paese si stanno facendo sentire.

A farne le spese è stato qualche giorno fa Ali Khan Mahmudabad, professore di scienze politiche della Ashoka University, ateneo privato d’élite a pochi chilometri dalla capitale New Delhi.

Domenica 18 maggio la polizia dello stato dell’Haryana ha arrestato Mahmudabad nella sua casa di New Delhi con l’accusa di sedizione e incitamento all’odio intercomunitario (la formula utilizzata per indicare commenti incendiari contro una delle tante comunità religiose indiane). 

Ragione dell’arresto? Un post su Facebook in cui Mahmudabad esprimeva – molto timidamente, aggiungo io – alcune perplessità circa la conferenza stampa delle forze armate indiane all’indomani dell’operazione Sindoor, l’offensiva aerea che secondo New Delhi avrebbe neutralizzato nove obiettivi strategici in territorio pachistano in qualche modo collegate alle cellule terroristiche islamiche attive nel paese.

Era la risposta all’attentato del 22 aprile nel Kashmir amministrato dall’India, quando un commando di quattro terroristi aveva massacrato 28 turisti, civili e disarmati; tutti maschi, quasi tutti hindu.

L’8 maggio, cioè due giorni dopo l’attacco indiano, Mahmudabad aveva ironicamente fatto notare la peculiarità della conferenza stampa dell’esercito indiano, che per spiegare al mondo i dettagli e le ragioni dell’offensiva indiana aveva scelto come portavoce – tra gli altri – il colonello Sofiya Qureshi: donna e musulmana.

 

Il discorso di Qureshi aveva incassato immediatamente le lodi entusiastiche di gran parte del contesto mediatico e politico indiano, anche dalle parti dell’estremismo hindu che, fino a quel momento, aveva dimostrato ben poca solidarietà col segmento sociale della minoranza musulmana indiana.

«Magari potrebbero richiedere con la stessa vocalità che le vittime dei linciaggi, delle demolizioni arbitrarie e le altre vittime delle campagne d’odio del Bharatiya janata party (Bjp, il partito di destra hindu guidato dal primo ministro Narendra Modi, ndr) siano protetti e protette come qualsiasi altro cittadino o cittadina indiana» aveva scritto Mahmudabad, pur rilevando che l’immagine di una donna musulmana in divisa ricalcasse alla perfezione l’ambizione multiculturale, multiconfessionale e nazionalista che i padri della patria posero come fondamenta per la costruzione dell’India indipendente. Fondamenta che, secondo Mahmudabad e non solo, l’amministrazione della destra hindu da undici anni sta cercando di distruggere in favore di una «hinduizzazione» della repubblica indiana.

Inoltre, dopo aver evidenziato l’ipocrisia della destra hindu, significativamente Mahmudabad chiudeva il suo post con «Jai hind», viva l’India, motto nazionalista reso celebre dal movimento per l’indipendenza del secolo scorso. Insomma, una critica politica modesta in mezzo a un intervento tutto sommato patriottico.

Non è stata questa la lettura di un leader minore del Bjp in Haryana, che ha denunciato Mahmudabad per il suo post «che promuove ostilità e disarmonia», né quella di Renu Bhatia, la presidente della Commissione statale per le donne dell’Haryana, secondo cui le posizioni di Mahmudabad «insultano le donne delle forze armate indiane e promuovono la disarmonia intercomunitaria».

Entrambi si sono rivolti alle forze dell’ordine, che hanno recepito le denunce e hanno proceduto all’arresto del professore, stilando un documento dell’accusa che comprende capi come «minaccia alla sovranità, all’integrità e all’unità dell’India», «atti, parole o azioni intese a insultare il pudore delle donne», «disturbo della quiete e dell’armonia pubblica» e «asserzioni che pregiudicano l’integrità nazionale».

La testata indipendente online Scroll.in fa notare che alcune delle fattispecie di reato elencate nel documento dell’accusa della polizia qualche mese fa avevano sollevato le perplessità della Corte suprema, tanto che la massima corte indiana si era raccomandata che nel valutare gli estremi di reato in casi che appartengono alla sfera della libertà d’espressione – come quello del post su Facebook di Mahmudabad – le autorità non dovrebbero basarsi sugli standard di «persone che percepiscono le critiche come una minaccia al loro potere o alla loro posizione».

Sembra che le annotazioni della Corte suprema non siano state prese esattamente alla lettera dalla polizia dell’Haryana.

Il 20 maggio il caso di Mahmudabad è finito in Corte suprema e il professore è stato rimandato a un’altra settimana di custodia giudiziaria.

Nel frattempo l’associazione dei professori e delle professoresse di Ashoka university in un comunicato ha espresso il sostegno totale al loro collega, chiedendone il rilascio immediato e lo stralcio di tutti i capi d’accusa.

Chi si oppone alla deriva nazionalista hindu dell’attuale amministrazione Modi ritiene che il caso Mahmudabad evidenzi la restrizione sempre più allarmante degli spazi di libertà d’espressione nel paese.

Secondo uno studio condotto dal think tank indipendente statunitense The Future of Free Expression sulla libertà d’espressione a livello globale l’India nel 2025 si è posizionata 24esima su 33, dietro a Sudafrica e Libano e ben lontano dalla vetta della classifica, occupata da Norvegia e Finlandia.

È da rilevare che, nell’India di oggi, la reazione delle autorità a presunte dichiarazioni incendiarie dipende molto dalla provenienza di tali affermazioni.

Negli stessi giorni in cui montava il caso di Mahmudabad – professore progressista e musulmano – un altro commento diretto al colonnello Qureshi diventava virale sui social indiani. A pronunciarlo è stato Kunwar Vijay Shah, ministro di fede hindu dello stato del Madhya Pradesh eletto tra le fila del Bjp, che durante un comizio pubblico in cui esaltava la leadership muscolare di Modi nel dietro le quinte dell’offensiva militare indiana in Pakistan a un certo punto evidenza come Modi abbia mandato «una sorella dei terroristi a vendicarci». 

 

Riferimento chiaro al fatto che Qureshi sia musulmana e quindi, per estensione, «sorella» di musulmani, cioè secondo Shah, di terroristi.

Nel caso di Shah, che ha provato a scusarsi pubblicamente pochi giorni dopo il comizio, la polizia del Madhya Pradesh – stato governato dal Bjp – non ha ricevuto nessuna denuncia e non è intervenuta.

Ci ha dovuto pensare l’Alta corte dello stato, che suo motu ha ordinato alle autorità di aprire un procedimento di indagine sulle dichiarazioni di Shah, Procedimento che è stato scritto, secondo l’Alta corte, in una maniera che garantiva l’archiviazione automatica di Shah poiché «non citava esplicitamente le azioni dell’imputato».

Alla fine è intervenuta la Corte suprema, che ha dato ordine di formare una squadra d’investigazione speciale per valutare e, eventualmente, punire l’uscita di Shah.

Di Matteo Miavaldi