Il primo luglio Rahul Gandhi, il leader dell’Indian National Congress, ha pronunciato il suo primo discorso della nuova legislatura alla Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano. Ed è stato un successone. In questa puntata di Elefanti Matteo Miavaldi parte proprio da quel discorso e da quei temi per parlare un po’ di India, induismo e “indianità”.
Il primo luglio Rahul Gandhi, il leader dell’Indian National Congress, ha pronunciato il suo primo discorso della nuova legislatura alla Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano. Era un appuntamento storico che Gandhi sapeva di non poter mancare: dopo la cavalcata della campagna elettorale e il risultato più che soddisfacente alle ultime elezioni, Gandhi è stato anche nominato “leader of the opposition”, cioè il rappresentante di tutte le opposizioni parlamentari.
In India è una carica ufficiale che viene assegnata al membro di un partito di opposizione che occupi almeno un decimo dei seggi in parlamento e nessun partito, nelle due legislature precedenti, aveva mai raggiunto questa soglia minima. Significa che Gandhi è il primo “leader of the opposition” degli ultimi dieci anni, insomma una responsabilità non da poco. Anche per questo il primo luglio gli occhi erano puntati più su di lui che su Narendra Modi, che chi segue le cose indiane ormai vede, sente e legge ovunque, in tutte le salse, da dieci anni. Il discorso di Gandhi è stato un successo e in questa puntata di luglio di Elefanti a parte voglio partire da quel discorso e da quei temi per parlare un po’ di India, induismo e “indianità”.
Gandhi si è alzato, si è avvicinato al microfono, e poco dopo aver preso parola ha iniziato a spiegare quello che voleva dire sollevando dei poster che raffiguravano delle divinità o dei simboli religiosi. Le sessioni parlamentari sono seguite in diretta dalla tv nazionale e chi fa la comunicazione di Gandhi ha preparato questo momento non per il pubblico in parlamento, ma per chi avrebbe seguito e consumato questi contenuti da casa, davanti alla tv o, ancora meglio, sullo smartphone qualche giorno dopo.
Gandhi ha parlato di pace, di coraggio e di lottare contro la paura come concetti comuni alle principali religioni praticate in India. E lo ha fatto con esempi concreti, mostrando a favore di telecamera prima un poster di Shiva, poi le mani aperte in segno di preghiera islamica, poi Gesù Cristo, poi Guru Nanak…insomma, un pantheon trasversale in cui quei concetti si ripetono e, dice Gandhi, rappresentano la missione delle opposizioni: combattere la paura, la violenza e le divisioni causate dalla destra hindu e lavorare per la pace e l’unità del Paese in cui tutte e tutti, prima di essere dei fedeli, sono cittadine e cittadini dell’India.
Durante tutto il suo intervento, i banchi della maggioranza si sono scatenati urlando e fischiando, inviperiti per l’uso “strumentale” di Gandhi dell’immagine di Shiva. Poi hanno preso parola Modi e Amit Shah – ministro dell’interno e storico braccio destro di Modi – e hanno accusato Gandhi di aver insultato “tutta la comunità hindu” mostrando l’immagine di Shiva in quel contesto.
E di nuovo, altra bagarre, stavolta dalle opposizioni. Urla, strepiti, Gandhi alla fine riesce a prendere parola e a dire una cosa importantissima che per giorni ha risuonato sui social e sui media indipendenti indiani: che “Modi non rappresenta tutti gli hindu. Il Bjp non rappresenta tutti gli hindu. La Rss non rappresenta tutti gli hindu”.
Questo è un punto centrale che attacca il cuore della strategia politica che negli ultimi dieci anni ha guidato il Bharatiya Janata Party (Bjp, il partito di destra hindu di Modi) e della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss, l’organizzazione paramilitare spina dorsale ideologica del Bjp): dire a tutte le persone che si identificano come hindu che il partito e l’ideologia che le rappresenta sono solo il Bjp e l’“hindutva”, cioè l’idea che l’India debba essere il Paese degli hindu e basta. In altre parole, il maggioritarianesimo hindu promosso dalla Rss da più di un secolo.
È un messaggio rivolto all’80% di chi vive in India, ovvero a più di un miliardo di persone, e il tentativo di “togliere” l’induismo alla destra è un piano che l’Indian National Congress di Rahul Gandhi sta cercando di mettere in pratica da quando Modi e il Bjp, spingendo molto sulla retorica ultrainduista della Rss, hanno cominciato ad allargare molto il proprio consenso popolare.
Tirando in ballo addirittura Shiva (una delle divinità più importanti del pantheon induista e, tra l’altro, mitologicamente riconosciuta come la “fondatrice” di Varanasi, cioè il seggio di Modi) Gandhi ha voluto colpire la destra hindu là dove fa più male.
Il giorno dopo Gandhi ha incassato il sostegno di Shankaracharya Avimukteshwaranand Saraswati, una tra le personalità più autorevoli in assoluto nel panorama induista che anche in passato si era esposto per criticare le parole e le pratiche della destra induista dal punto di vista proprio della tradizione degli studi religiosi.
Shankaracharya Avimukteshwaranand Saraswati è il 46esimo monaco a capo di uno dei quattro principali monasteri della tradizione induista che da secoli studiano e diffondo le interpretazioni delle sacre scritture hindu.
Secondo lo shankaracharya, Gandhi non ha detto niente di scorretto rispetto all’induismo e, anzi, diffondere frammenti del suo discorso snaturandone il contenuto è una pratica “ingannevole e non etica”.
Allo stesso tempo però, includendo quasi tutte le altre religioni del panorama indiano, Gandhi ha voluto proiettare un’immagine di un leader che, personalmente, è di fede hindu, certo, ma che è in grado di rappresentare e accogliere all’interno delle opposizioni anche tutte le persone che non si riconoscono come hindu ma che condividono un’idea di India opposta al settarismo della destra di Modi.
Direi che come primo discorso della nuova legislatura Gandhi ha messo le cose in chiaro: le opposizioni ci sono, ci saranno e daranno battaglia.
QUANDO LA SUPERSTIZIONE UCCIDE
Sempre in tema induismo e devozione, vicino ad Hathras, in Uttar Pradesh, all’inizio di luglio durante un raduno religioso hindu sono morte più di 120 persone, schiacciate dalla folla. A centinaia di migliaia si erano radunate fuori dalla città per partecipare a un evento promosso da Bhole Baba, personaggio molto difficile da descrivere senza fare scivoloni rispetto alla tradizione devozionale induista.
Su Instagram usando il termine “fake baba” e in privato chi ne sa molto più di me mi ha giustamente ripreso, perché dire che qualcuno è un baba “vero” e qualcun altro invece è “finto” nel contesto induista non si può: l’insieme di culti e tradizioni raggruppati in quello che noi chiamiamo “induismo” è vario, sincretico e non deve rispondere ad alcuna ortodossia.
E quindi uno è un baba, cioè una persona riconosciuta come una guida spirituale, se ha qualcuno che ci crede, senza bisogno di bollini di certificazione o di investiture particolari.
Detto ciò, Bhole Baba e quelli come lui sulla stampa indiana sono descritti usando la perifrasi “self styled godman”, cioè “uomini-dio faidaté”. Persone che da un giorno all’altro mollano tutto e iniziano a predicare pubblicamente quello che gli pare.
Bhole Baba, nello specifico, prima di diventare un guru si chiamava Narayan Sakar Hari e ha lavorato come agente di polizia per due decenni. Finché, alla fine degli anni Novanta, non ha avuto quella che lui descrive come una “rinascita spirituale”. Ha abbandonato l’arma e si è messo a predicare pace, amore, solidarietà per i più poveri, rifiuto della discriminazione su base castale (soprattutto l’intoccabilità per i dalit) e armonia nella società.
Il tutto, però, condito con dichiarazioni un po’ più controverse. Bhole Baba sostiene di aver avuto un incontro diretto col “divino” e di avere dei poteri soprannaturali e nonostante il look (sempre in camicia bianca, pantaloni occidentali e occhiali da sole come un idolo di Bollywood, una passione per le macchine di lusso), i suoi fedeli hanno iniziato ad attribuirgli miracoli stupefacenti.C’è chi ha detto di averlo visto circondato da un’aura colorata, chi con la testa coronata da un’aureola, e chi è sicuro che Bhole Baba sia in grado di guarire i malati, curare i feriti e perfino resuscitare i morti.
Con una fama del genere, il suo entourage ha chiesto alle autorità locali di Hathras il permesso di organizzare un evento pubblico per 80mila persone. Se ne sono presentate più di 250mila.
Al termine dell’intervento dal palco di Bhole Baba, migliaia di fedeli si sono buttati verso la jeep del baba per raccogliere la terra dove era passato il guru, considerata un cimelio sacro con proprietà magiche e propiziatorie. Nella calca sono morte schiacciate e asfissiate almeno 123 persone, con centinaia di feriti.
La polizia dell’Uttar Pradesh ha denunciato gli organizzatori dell’evento e ha promesso risarcimenti alle famiglie delle vittime e ai feriti. Tra gli indagati non c’è però Bhole Baba, che potrà così continuare la sua carriera di guru senza troppi intoppi.
COSA VEDERE QUEST’ESTATE
Elefanti a parte si prende una vacanza e tornerà a settembre. Nel frattempo vi consiglio di recuperare la serie tv Mirzapur, su Amazon Prime. È uscita da poco la terza stagione e chi, come me, se l’era persa per strada può approfittarne quest’estate per cominciare dalla stagione 1, uscita nel 2018.
La vicenda parte con lo scontro tra due famiglie di Mirzapur, in Uttar Pradesh: una è quella del boss locale Akhandanand Tripathi, che controlla il traffico di armi della zona; l’altra è quella di Ramakant Pandit, avvocato che non si fa intimidire dalle minacce mafiose.
Le cose si complicano quando entrano in campo i figli delle due famiglie, che mentre cercano il riconoscimento e la stima dei padri sono risucchiati in un vortice di violenza, ambizione e avidità che racconta bene come si gestisce il potere locale nell’India di oggi.
A cura di Matteo Miavaldi