Settembre 2025. Mentre Nuova Delhi consolidava i rapporti economici con Riyadh e immaginava un futuro di corridoi commerciali condivisi, in una sala del Ministero della Difesa saudita veniva firmato un documento destinato a cambiare gli equilibri regionali. Non un semplice memorandum di cooperazione, ma un patto vincolante di difesa reciproca che avrebbe legato l’Arabia Saudita all’unico paese musulmano in possesso di armi atomiche: il Pakistan.
L’accordo strategico tra Pakistan e Arabia Saudita non è l’ennesimo protocollo diplomatico da archiviare tra le “notizie minori”. Rappresenta un momento spartiacque che ridefinisce il significato di sicurezza in Asia Occidentale e Meridionale e soprattutto chi ne garantisce la tutela. Per la prima volta un paese del Golfo formalizza un’alleanza difensiva che non passa formalmente per Washington. Questo patto mette in luce tre evidenze con cui la comunità internazionale dovrà fare i conti: la prima è che l’ombrello difensivo americano non è più considerato affidabile dalle monarchie del Golfo; la seconda è che i confini tra la sicurezza del Golfo e quella sudasiatica sono ormai sfumati; la terza è che l’India si ritrova improvvisamente in una partita più complicata di quanto immaginasse, e che l’Afghanistan dei talebani sta emergendo nei rapporti diplomatici della regione.
Ma facciamo un passo indietro.
Il 17 settembre 2025 il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif e il principe ereditario Mohammed bin Salman hanno siglato lo Strategic Mutual Defence Agreement. Al centro dell’accordo c’è una clausola che riecheggia l’articolo 5 della NATO: un attacco contro uno dei due paesi è considerato un attacco contro entrambi.
I leader sauditi hanno fatto capire che “l’era degli aiuti è finita”. Niente più assistenza a fondo perduto, ma investimenti strategici in energia, minerali critici, tecnologia e coproduzione militare. Questo si traduce nella seguente formula: il Pakistan mette sul tavolo un esercito di 600mila uomini e un’industria della difesa cresciuta all’ombra del conflitto con l’India. L’Arabia Saudita, invece, offre investimenti cruciali: oltre sei miliardi di dollari nell’anno fiscale 2025-2026.
E poi c’è la formulazione che ha fatto sobbalzare gli analisti: nonostante il testo completo non sia pubblico, i funzionari sauditi lo descrivono come un accordo che copre “tutti i mezzi militari”, una frase che include, senza nominarle esplicitamente, le capacità nucleari pakistane. Il Ministro della Difesa pakistano Khwaja Asif ha parlato di capacità nucleari “assolutamente disponibili”, salvo poi ritrattare. L’ambiguità però è rimasta: è una zona grigia che genera deterrenza senza i costi politici di un accordo nucleare formale.
L’accordo arriva in un momento di eccezionale complessità. Otto giorni prima della firma, missili israeliani hanno colpito Doha, in Qatar, nel tentativo di uccidere la delegazione di Hamas nel paese per trattare il cessate il fuoco con Tel Aviv. Questa è stata la prima aggressione militare israeliana contro uno stato del Golfo, il quale ospita la più grande base americana nella regione. Lo shock per la regione è stato profondo: se Washington non ha impedito questo attacco, che valore hanno le sue garanzie? La percezione di un abbandono da parte degli Stati Uniti si era già consolidata da tempo, a causa della debole reazione agli attacchi degli Houthi yemeniti nel 2019, del ritiro caotico delle truppe dall’Afghanistan e di altre esitazioni su dossier regionali.
Ma sarebbe sbagliato vedere l’accordo solo come reazione immediata agli attacchi del governo Netanyahu. Le radici sono più profonde.
Il contesto include il genocidio a Gaza perpetrato da Israele con oltre 65mila vittime (solo quelle accertate, ma i numeri reali sono molto più alti), la guerra lampo indo-pakistana nel maggio 2025 e una guerra di dodici giorni tra Iran e Israele nel giugno. L’Arabia Saudita ha deciso di diversificare le sue polizze assicurative e il Pakistan ha intravisto l’opportunità di trasformare la sua vulnerabilità economica in risorsa strategica.
Per l’Arabia Saudita, il patto è uno strumento di “doppia deterrenza” contro l’Iran e contro un Israele sempre più aggressivo e imprevedibile. Mohammed bin Salman persegue una strategia di hedging, ossia diversificare le alleanze per ridurre la dipendenza da Washington. La stabilità è essenziale per Vision 2030, che dipende dall’attrazione e dalla legittimazione internazionale.
Per il Pakistan, l’accordo rappresenta un sostegno economico fondamentale e un’opportunità strategica per contrastare l’influenza dell’India.
La clausola di difesa reciproca complica i calcoli di Nuova Delhi: la prossima crisi militare non sarà più bilaterale. Riyadh, almeno nominalmente, sarà dalla parte del Pakistan.
L’India si trova a fronteggiare una sfida cruciale nella sua partnership con Riyadh, dove le dinamiche della deterrenza hanno subìto un cambiamento significativo. Gli Stati Uniti vedono due alleati costruirsi un’architettura almeno nominalmente autonoma, anche se resta da vedere se l’accordo tra Pakistan e Arabia Saudita sia stato fatto tenendo Washington all’oscuro (scenario quantomeno improbabile). Di tutto questo non può che gioire la Cina, che osserva il rafforzamento di un alleato cruciale per lo sviluppo della Belt and Road Initiative (Bri, impropriamente nota come Nuova Via della Seta) e vede un alleato storico del suo principale competitor statunitense allontanarsi, almeno formalmente, dalla Casa bianca.
Anche gli interessi europei nella regione potrebbero subire un ridimensionamento. Il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato al G20 del 2023 come alternativa alla BRI, si trova su un terreno scivoloso. Come può funzionare quando un partner del Golfo firma un patto di difesa con il rivale dell’India? La fiducia politica necessaria rischia di evaporare. C’è poi l’incognita del nuovo attore diplomatico della regione: l’Emirato Talebano Afghano.
L’accordo inserisce Riyadh nelle tensioni tra Pakistan e il regime talebano, con scontri al confine sempre più frequenti. Per l’India, questo sviluppo complica ulteriormente una situazione già difficile. Nuova Delhi ha investito miliardi in Afghanistan negli ultimi vent’anni, costruendo infrastrutture e cercando influenza per contenere il Pakistan. Il ritorno dei talebani nel 2021 ha già rappresentato un colpo durissimo per gli interessi indiani. Ora, con l’Arabia Saudita schierata formalmente dalla parte pakistana, l’India perde ulteriore capacità di manovra nella regione. Il timore è che Riyadh possa usare la sua influenza sui talebani per favorire Islamabad nelle controversie di confine, marginalizzando completamente la posizione indiana in Afghanistan.
Qui si innesta anche la questione della base di Bagram, poco fuori Kabul: gli Stati Uniti potrebbero sfruttare i legami con Riyadh e Islamabad per fare pressione su Kabul, ma è una leva delicata.
Il Pakistan non dice apertamente di estendere il suo ombrello nucleare all’Arabia Saudita, ma nemmeno lo esclude. Gli esperti ritengono improbabile un trasferimento fisico di testate: non solo sarebbe controproducente ma aprirebbe un secondo fronte con l’Iran e provocherebbe sanzioni devastanti.
Ma l’ambiguità ha valore. Come osserva Christopher Clary, professore dell’Università di Albany e esperto di Asia Meridionale, “qualsiasi stato che consideri un’aggressione contro l’Arabia Saudita deve fare i conti con la possibilità delle armi nucleari pakistane, anche se il loro uso non sarebbe certo”. Non serve schierare fisicamente armi nucleari per ottenere deterrenza. Basta l’incertezza.
Per la prima volta, l’unica potenza nucleare musulmana entra a far parte dell’equazione di sicurezza del Golfo. Le implicazioni sono enormi per la stabilità regionale e i regimi di non proliferazione. Israele si trova di fronte a una nuova variabile e l’Iran deve fare i conti con un potenziale fattore nucleare dall’altra parte. C’è anche la storia: negli anni Novanta l’Arabia Saudita ha finanziato il programma nucleare pakistano, creando così dipendenze reciproche.
Qatar e Turchia stanno esplorando accordi simili con Islamabad, ma ancora nulla è deciso. L’Iran ha accolto con favore l’iniziativa, definendola “inizio di un sistema di sicurezza regionale” basato sulla cooperazione islamica. Gli ostacoli a un’alleanza islamica ampia rimangono però intatti: ci sono divisioni settarie tra sunniti, sciiti, wahabiti. C’è la dipendenza dalle armi occidentali, la debolezza istituzionale dei governi e le enormi differenze economiche tra i sistemi dei vari paesi.
In questo contesto un patto bilaterale basato sulle capacità complementari non solo è più realistico, ma anche più sostenibile. Il Pakistan ha forza militare e armi nucleari e l’Arabia Saudita ha i capitali.
Per decenni gli Stati Uniti hanno garantito la sicurezza del Golfo in cambio di petrolio e basi militari. Hanno fornito assistenza al Pakistan per cooperazione antiterroristica. Ora entrambi costruiscono un’architettura autonoma senza, fino a prova contraria, passare per la Casa Bianca.
Washington si trova in una posizione delicata. È preoccupata per la proliferazione nucleare, ma evita critiche dirette a due alleati importanti. Criticare l’accordo rischierebbe di spingerli ancora più lontano. La Cina è ben posizionata per diventare partner in questo nuovo assetto, con tecnologia di difesa e capacità di investimento.
L’era dell’ombrello unipolare potrebbe essere finita non con un colpo di tamburo ma con la firma silenziosa su un documento che quasi nessuno a Washington ha visto arrivare. Il 17 settembre 2025, in una sala di Riyadh, si è aperto un capitolo nuovo nella geopolitica dell’Asia occidentale e dell’Asia meridionale, in cui i vecchi garanti della sicurezza cedono il passo a nuovi equilibri
Di Sara Tanveer
