A pochi giorni dall’inizio del Kumbh molti media indiani hanno iniziato a raccontare la vicenda “inspiring” di Abhay Singh, un giovane sadhu immediatamente soprannominato “IIT Baba”, dove IIT sta per Indian Institute of Technology, l’indirizzo universitario più prestigioso dell’India che nei decenni ha sfornato alcune tra le menti più brillanti del Paese, soprattutto in ambito tech.
Lunedì 13 gennaio è iniziato ufficialmente il Maha Kumbh Mela di Prayagraj (già Allahabad, in Uttar Pradesh), il più grande raduno religioso del mondo. Fino al 26 febbraio, alla confluenza dei fiumi Gange, Yamuna e del mitologico e invisibile Saraswati, centinaia di milioni tra pellegrini, sadhu e curiosi si immergeranno nelle acque che secondo l’induismo garantiscono la remissione di ogni peccato e il moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite.
Di mito, storia e utilizzo dell’evento per i fini politici della destra hindu al potere ne ho scritto in un lungo pezzo pubblicato qualche settimana fa su il manifesto, mentre oggi qui vorrei provare ad approfondire una questione che mi ha posto su Instagram il giornalista Salvatore Garzillo , che in questi giorni è in India per un documentario.
Salvatore in una story mi ha chiesto più o meno – vado a memoria – che rapporto c’è nell’India di oggi tra lo slancio verso il progresso e la salvaguardia della tradizione. Cioè come sia possibile, ammesso che lo sia, conciliare nei piani di crescita indiana il mantenimento di una tradizione spirituale come quella che viene promossa in questi giorni al Maha Kumbh Mela.Domanda da un milione di dollari che non ho la minima ambizione di esaurire qui, ma in questi giorni ho letto alcune cose intorno al Kumbh Mela che forse una risposta non la danno, ma qualche indizio sì.
Il primo ministro Narendra Modi, ad esempio, nella puntata di gennaio di Mann Ki Baat una specie di proclama urbi et orbi trasmesso ogni mese da All India Radio in cui il premier promuove le azioni del suo governo in un dialogo immaginario con l’opinione pubblica) ha descritto così il Kumbh Mela: “Un indimenticabile mare di umanità, immagini incredibili, una straordinaria confluenza di uguaglianza e armonia. Il festival del Kumbh celebra l’unità nella diversità. Il Kumbh ci dice anche come le nostre tradizioni uniscano tutta l’India”.
Il Kumbh è un festival hindu, quindi è dura che unisca tutta l’India quando ci sono 250 milioni di indiani musulmani che non si riconoscono nell’evento, e non a caso Modi usa anche un motto – “unità nella diversità” – coniato e reso celebre dal primo capo di governo indiano Jawaharlal Nehru in riferimento al carattere laico, multiculturale e multiconfessionale dell’India indipendente. Esattamente il contrario di quello che intende Modi usando quel motto, sovrapponendo alla religione hindu l’identità indiana.
La frase che mi ha più colpito però è questa: “Questa volta siamo testimoni anche delle impronte digitali del Kumbh su vasta scala. La popolarità globale del Kumbh è motivo di orgoglio per ogni indiano”.
Modi sa che mai come nel 2025 la diffusione dei social network ha portato a una promozione così ampia di un evento carico di fascino per il pubblico non-indiano e che, grazie alla copertura praticamente quotidiana di tutti i principali media mainstream indiani, proietta dentro e fuori dal Paese l’immagine di un’India pacifica, spirituale, capace di attirare curiosi da ogni angolo della Terra.
E qui, per iniziare a rispondere parzialmente a Salvatore, si innesta alla perfezione la storia per il momento più virale uscita dal Maha Kumbh Mela di Prayagraj: quella del cosiddetto “IIT Baba”.
A pochi giorni dall’inizio del Kumbh molti media indiani hanno iniziato a raccontare la vicenda “inspiring” di Abhay Singh, un giovane sadhu immediatamente soprannominato “IIT Baba”, dove IIT sta per Indian Institute of Technology, l’indirizzo universitario più prestigioso dell’India che nei decenni ha sfornato alcune tra le menti più brillanti del Paese, soprattutto in ambito tech.
Ora, la storia raccontata dai media indiani va più o meno così: Abhay Singh proviene dallo stato dell’Haryana, ha una carriera scolastica eccellente tanto da riuscire a entrare all’IIT di Mumbai, dove intraprende una specializzazione in ingegneria aerospaziale. È un identikit che renderebbe entusiasta ogni famiglia indiana: Singh è il figlio prodigio che tutti vorrebbero avere, in un contesto dove accedere a università d’élite in India prevede una competizione durissima tra letteralmente milioni di aspiranti matricole all’anno. Singh, quindi, è il meglio del meglio della sua generazione.
Solo che la vita da ingegnere gli lascia un grande vuoto dentro, soffre di depressione acuta, inizia a interessarsi di fotografia perché vivere la vita è più di studiare giorno e notte nella speranza di ottenere un ottimo posto di lavoro pagato profumatamente, magari all’estero (il sogno della middle class indiana). I genitori non capiscono il suo malessere, iniziano incomprensioni e litigi, finché Singh prende una decisione radicale: molla tutto e diventa un sadhu, alla ricerca del significato della vita attraverso la tradizione hindu e la spiritualità.
Così appare alla fine di gennaio 2025 nel tendone della Juna Akhara, la congregazione di asceti hindu più numerosa di tutto il Kumbh Mela, dicendo di essere un iniziato. E televisioni, siti web e influencer per giorni fanno la fila per intervistarlo e farsi raccontare la sua storia, anche per una somiglianza notevole con la parabola di Farhan Qureshi, uno dei personaggi principali del film “3 Idiots”, tra le pellicole di Bollywood più celebri di sempre.
Se cercate “IIT Baba” su Youtube o su Instagram troverete decine e decine di stralci di interviste, soprattutto in hindi, in cui il giovane Singh sintetizza le sue vicende infarcendole di frasi spiritualeggianti ad effetto.
In inglese c’è questa di Indian Express
Complice un battage mediatico insistente, Singh è stato riconosciuto immediatamente come “il baba più famoso di questo Kumbh”, ammassando quasi mezzo milione di follower su Instagram come incarnazione delle ansie e delle preoccupazioni che condividono moltissimi indiani e indiane: confermare le aspettative della propria famiglia, sacrificarsi per lo studio e per la carriera, rinunciare alla spensieratezza dell’adolescenza per assicurarsi un futuro “di successo”. Problemi a cui Singh dice di aver trovato una soluzione affidandosi al “sapere millenario” della tradizione ascetica hindu.
Finché, colpo di scena: intorno al 20 gennaio un rappresentante della Juna Akhara dichiara che “IIT Baba” è stato cacciato dal tendone della akhara, reo di aver insultato il suo guru.Anzi, secondo il portavoce della Juna Akhara, Singh non è nemmeno mai stato un sadhu (asceta iniziato), ma è semplicemente un “vagabondo” che parlava troppo alla stampa, “si drogava e ci diffamava”.
A stretto giro è arrivata anche l’intervista al padre di Singh, in cui spiega che la famiglia era preoccupata da mesi per il suo stato depressivo e ora lo invita a tornare a casa “per occuparsi della famiglia”.
Mentre scrivo, IIT Baba ha risposto alle accuse della Juna Akhara dicendo di essere stato cacciato perché i sadhu avevano paura che lui denunciasse ai media i loro “affari sporchi”.
La saga è destinata a continuare ancora per qualche settimana, ma già così la storia mediatica di IIT Baba offre elementi di riflessione utili: c’è il valore salvifico della tradizione hindu, c’è l’aspetto dell’eccellenza tecnologica del Paese che va a braccetto con un’alienazione sempre crescente tra i giovani e le giovani indiane, e c’è un esercito di media che hanno gonfiato una vicenda in definitiva un po’ preoccupante, problematica, spremendo una persona evidentemente in difficoltà per magnificare le meraviglie del “più grande raduno spirituale del mondo”.
Dove la spiritualità, se c’è, è difficile trovarla su Instagram.
MANDATO DI ARRESTO PER BABA RAMDEV
Sempre per la serie “Baba che forse non lo sono così tanto”, in settimana le autorità del Kerala hanno spiccato un mandato di arresto per Baba Ramdev e il suo socio Acharya Balakrishna, accusati di pubblicità ingannevole.
Ramdev, considerato il principale promotore dello yoga nel Paese grazie a un fortunatissimo programma televisivo e molto vicino al partito nazionalista hindu del premier Modi, assieme al sodale Balakrishna controlla il conglomerato Patanjali, una multinazionale da 4 miliardi di dollari di fatturato specializzata in prodotti naturali e medicinali ayurvedici.
In uno spot di qualche anno fa Patanjali, attraverso il faccione di Ramdev, promuoveva le proprie medicine ayurvediche come cura infallibile per ipertensione e diabete, senza uno straccio di evidenza scientifica.
È l’ultima di una serie di eccentricità, diciamo così, manifestate in questi anni da Ramdev, compreso attaccare la medicina allopatica nel bel mezzo della pandemia – “una scienza stupida e fallita” – e dire che lo yoga non solo può portare a una crescita economica “del 10%” ma è anche una cura efficace contro l’omosessualità
DA VEDERE: 3 IDIOTS
Per capire meglio le similitudini tra la vicenda di IIT Baba e il personaggio di finzione di Farhan Qureshi, se non l’avete ancora visto vi consiglio di dare una chance a 3 Idiots. Il film, uscito nel 2009, ha consacrato la carriera di Amir Khan, da quel momento uno degli attori più amati di Bollywood.
La trama, in due parole: un gruppo di amici naviga tra esaltazione e insidie gli anni universitari all’IIT, creando un forte legame tra tre di loro che, cinque anni dopo essersi laureati, vanno alla ricerca di un quarto amico di cui si sono perse le tracce. E il viaggio diventa occasione per fare un bilancio delle proprie vite a cavallo dell’età adulta.
Polpettone melenso? Un po’. Ma 3 Idiots è il film che ha formato più di ogni altra pellicola la generazione millennial indiana, ed è a tutti gli effetti oggetto di culto.