La partita per l’e-commerce indiano passa dalle abitudini consumistiche di milioni di famiglie della classe media: colletti bianchi, figli all’università, abitazioni minimal-tristi e una passione trascinante per la comodità. Cliccare e vedersi recapitato a casa un prodotto a prezzi convenienti, evitando l’odissea dello shopping analogico nei mercati indiani, è l’asset su cui contano brand giovanissimi come Flipkart e Snapdeal, sotto attacco del colosso internazionale Amazon che pianifica investimenti massicci nel paese.La palazzina dei Duggal, quattro appartamenti – uno per piano – è una specie di micro-condominio a conduzione familiare: pianoterra e primo piano sono occupati dalle famiglie dei due fratelli Duggal, il secondo da una famiglia bengalese, il terzo e ultimo, fino a qualche mese fa, da chi scrive.
Prim Duggal, il miglior proprietario di casa che abbia mai avuto la fortuna di trovare nel subcontinente indiano, ha una moglie e due figli, è recentemente andato in pensione dopo un’onorata carriera di contabile presso un grande conglomerato indiano e, passati i primi due mesi di «libertà», ha iniziato a trottolare per le scale in cerca di lavoretti di bricolage da poter svolgere, a bussare al terzo piano per assicurarsi che avessimo ben chiuso i rubinetti o per concordare un’imprescindibile appuntamento ora con l’imbianchino, ora con l’elettricista. Il contatti elettrici ballerini della cucina, il ventilatore sbilenco e le macchie sui muri del soggiorno, adesso che la condanna alla pensione lo costringeva tra le quattro mura domestiche, erano diventate urgenze di terzi non più procrastinabili.
I Duggal, insomma, sono il gruppo di persone più rappresentativo della chiacchieratissima classe media indiana che abbia mai avuto a portata: genitori colletti bianchi o statali (la signora Duggal è insegnante alle medie), figli perennemente impegnati nello studio (il maggiore, che si fa le canne a insaputa del padre, sta finendo il suo bachelor’s degree in accounting; la minore, che ha 17 anni e in linea con le coetanee alterna sessioni di texting furioso a partite a badmington in strada coi vicini, inizierà il prossimo anno il college, probabilmente materie scientifiche ma ancora non sa), automobile parcheggiata sotto casa, mobilio minimal-triste, schermo piatto con sermoni sikh trasmessi live dal Tempio d’Oro di Amritsar tutto il santo giorno, donna delle pulizie / cameriera / cuoca (in India questa figura professionale multitasking si chiama «didi», letteralmente «sorella maggiore») e, più recentemente, un’attività compulsiva di acquisto di prodotti online.
Attività contagiosa e seducente, che sublima una serie di caratteristiche care alla classe media (non solo indiana): comodità, efficienza, scelta, risparmio di soldi, di tempo e di fatica.
Brand locali come Flipkart, Snapdeal, Jabong o Myntra sono entrati nel vocabolario d’uso comune delle – poche, in numeri assoluti, ottimisticamente intorno al 20 per cento della popolazione indiana – famiglie della middle class indiana. L’opportunità di poter acquistare letteralmente qualsiasi cosa da uno dei portali elencati sopra, e di vederselo consegnare sul tappetino di casa in 24 ore da corrieri sfiancati sotto il peso di borsoni di plastica nera brandizzati, ha contribuito a una crescita irresistibile del settore dell’e-commerce nel paese.
La stampa internazionale, per l’India, stima per i prossimi anni un incremento del 50 per cento del mercato degli acquisti online: un’enormità, paragonato ad esempio ai tassi della Cina (18 per cento) o del Giappone (11 per cento). E se è vero che i valori assoluti rimangono risibili – nel 2016 il giro d’affari del settore in India dovrebbe raggiungere i 30 miliardi di dollari; in Cina, 1,1 trilioni di dollari – è vero anche che le prospettive di sviluppo parallelo della classe media indiana e dell’e-commerce hanno già attirato le mire dei grandi colossi internazionali. Amazon, lo scorso anno, ha annunciato di voler aumentare gli investimenti in India, portandoli a quota 5 miliardi di dollari, nel tentativo di affermarsi in un mercato potenzialmente sterminato e, per ora, a distanza di sicurezza dalle mire espansionistiche di concorrenti asiatici agguerriti come la cinese Alibaba.
Per le giovani compagnie indiane – lanciate tutte all’inizio degli anni Duemila – il rischio è rimanere schiacciati dall’entrata dei big stranieri e fare la fine comune a molte start-up nazionali: strozzate nella culla da una montagna di soldi, incassati per rinunciare a potenziali massicci himalayani di soldi da non spartire con partner stranieri.
La mossa di Amazon ha scatenato una guerra intestina tra i brand indiani dell’acquisto online, in un tutti contro tutti fatto di «crisi imminenti» o «mancanza di liquidità» annunciate sulla stampa e smentite in fretta, tenendo alta la minaccia di acquisizioni per la sopravvivenza. Offerte che non si possono rifiutare.
A fine luglio pare sia arrivato l’arrocco definitivo di Flipkart, che si candida a emergere come colosso incontrastabile nel panorama indiano. Dopo aver acquistato Myntra, specializzata in vestiario alla moda per uomini, la compagnia fondata nel 2007 a Bangalore da due ex alunni dell’Indian Institute of Technology di New Delhi (tra gli atenei d’eccellenza del sistema universitario statale indiano) e specializzata in articoli di informatica e hi-tech ha trovato un accordo di massima per inglobare anche Jabong, molto in voga per il vestiario femminile. L’affare, che dovrebbe concludersi alla fine del 2016, prevede un esborso sull’unghia da parte di Flipkart di 70 milioni di dollari: una cifra enigmatica, se si pensa che Jabong fino al 2013 era valutata a 508 milioni di dollari.
La stessa Flipkart, nel 2015, si autovalutava a 15 miliardi di dollari; nel giro di un anno, Morgan Stanley ha ridimensionato la stima a 9,39 miliardi.
Segno che dall’occasione imperdibile alla bolla speculativa il passo è breve. E che l’ago della bilancia rimane la speranza – o meglio, la scommessa – che nell’India di domani nascano, crescano e consumino sempre più famiglie Duggal.
[Scritto per il manifesto]