Dragonomics – De-delocalizzazione

In by Simone

Aumenta il costo del lavoro e le fabbriche si trasferiscono fuori dalla Cina. Pechino asseconda il fenomeno, ma è difficile sostituire un modello economico durato trent’anni dall’oggi al domani. Un altro aspetto della grande transizione cinese. Nulla rende meglio l’idea di come la fabbrica del mondo si stia scindendo in più “fabbrichette” del grafico pubblicato la settimana scorsa dal Wall Street Journal.

Il significato è evidente. Il costo del lavoro aumenta in Cina molto più che negli altri Paesi asiatici. Altrimenti detto: produrre oltre Muraglia è sempre meno competitivo.
È una figura della grande transizione cinese, al termine della quale il Dragone dovrebbe ritrovarsi economia evoluta e lasciare ad altri il “lavoro sporco”: alla lettera, perché produrre merci di ogni tipo per tutto il mondo ha ridotto la Cina a un gigante energivoro che brucia carbone (soprattutto) e altri combustibili fossili (sempre di più), rendendo drammatiche alcune emergenze ambientali.

Torniamo al nostro grafico. Secondo Shaun Rein, autore di The End of Cheap China, per una compagnia Usa produrre a Shanghai è ormai solo il 30 per cento più economico che farlo in Alabama, se si considerano anche i costi di trasporto e altri. Già un’azienda come la Nike – gente che di delocalizzazione se ne intende – fabbrica il 38 per cento dei suoi prodotti in Vietnam contro il 36 per cento in Cina. Rein, che di mestiere fa proprio il consulente strategico per grandi multinazionali, aggiunge che tra i suoi clienti sono sempre di più quelli che ci pensano due volte prima di trasferire le proprie operazioni in Cina. Altri, che l’hanno fatto, si lagnano dicendo che forse sarebbe stato meglio rimanere negli Usa.

Sebbene la Cina abbia attirato anche l’anno scorso 112 miliardi di dollari in investimenti diretti dall’estero, e ne resti il più grande beneficiario tra i Paesi in via di sviluppo, il flusso in entrata è calato del 3,7 per cento rispetto al 2011.

La de-delocalizzazione è uno dei fenomeni più significativi del nostro tempo, l’ulteriore riassestamento geografico in un mondo con l’Asia al centro, almeno per quanto riguarda la produzione di merci. Solo che questa “Asia” fa ormai sempre meno rima con Cina.
Il fatto è che i salari degli operai cinesi, generalmente mingong (migranti), sono aumentati nell’ultimo decennio del 20 per cento in media all’anno.
La ragione è semplice anche se può stupire: carenza di manodopera. Non c’è solo dietro la trentennale politica del figlio unico a ridurre l’esercito industriale di riserva che è stato alla base del boom cinese.

Il punto è che quella transizione che il governo di Pechino auspica è di fatto già in corso. I dati ufficiali rivelano infatti che il settore dei servizi ha creato 37 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi cinque anni, contro i 29 milioni nel settore industriale, che include il manifatturiero, le costruzioni e il minerario.
Per cui sempre più giovani migranti, a caccia anche di consumi che diano status, si riversano nelle città e cercano lavoro nel commercio e nei servizi, sdegnando le manifatture. Nel primo trimestre di quest’anno, il reddito medio mensile dei lavoratori migranti è aumentato già del 12,1 per cento rispetto al 2012. In Vietnam, la forza lavoro può ormai costare in media la metà di quella cinese.

Il fenomeno appare irreversibile. Un’inchiesta di Standard Chartered nel delta del Fiume delle Perle, la cintura manifatturiera per antonomasia, rivela che quasi il 90 per cento dei proprietari di fabbriche ritiene che la carenza di manodopera rimarrà la stessa o diventerà sempre più grave.
Così, anche per chi sceglie di restare a fare l’operaio, le condizioni migliorano gradualmente.
Intervistato dal Wall Street Journal, il presidente della Pacific Resources International, Dwight Nordstrom, rivela che nei 10 stabilimenti cinesi della compagnia che produce carta e cellulosa, i dipendenti lavorano tra le 40 e le 45 ore a settimana: quasi ritmi europei. Questi lavoratori, sempre secondo Nordstrom, prenderebbero in media salari del 20 per cento superiori a quello minimo.
Tuttavia molti operai scelgono comunque di andarsene per cercare fortuna nelle vendite al dettaglio o nei servizi, dove i guadagni possono essere superiori anche del 40 per cento.

Il governo di Pechino osserva il fenomeno e se ne compiace, perché va nella direzione giusta: trasformare un popolo di lavoratori a basso costo-risparmiatori in un enorme ceto medio di consumatori; creare sempre meno fabbriche pestilenziali e sempre più centri ricerca e poli high-tech.
Tuttavia, la transizione appare comunque difficile perché il Dragone deve riuscire a creare posti di lavoro ad alto valore aggiunto (con salari analogamente rivalutati) sufficientemente in fretta da controbilanciare l’esodo dal lavoro operaio.
Andrew Polk, un economista che sta a Pechino e fa ricerca per le grandi aziende americane ed europee, ha così sintetizzato il problema al WSJ: “Se i costi continuano a salire, ma la Cina non è in grado di essere più innovativa e di sviluppare tecnologie di produzione propria, i posti di lavoro che si spostano all’estero non saranno sostituiti da nulla”.