Il prossimo 5 dicembre partirà ufficialmente la connessione tra i listini di Hong Kong e Shenzhen. Per la Cina si tratta di un ulteriore passo nella liberalizzazione del mercato finanziario. Ma il precedente di Shanghai non deve generare facili entusiasmi. Con almeno un anno di ritardo sulle attese, il prossimo 5 dicembre prenderà il via il collegamento tra le borse di Shenzhen e Hong Kong. L’ultimo slittamento era stato deciso poco più di una settimana fa, per valutare l’effetto Trump sui mercati e soprattutto sull’andamento dello yuan per scongiurare eventuali fughe di capitali. Nessun timore invece per un possibile effetto referendum, per lo meno visto dall’estremo oriente, la connessione tra i listini dell’hub tecnologico cinese e l’ex colonia britannica partirà infatti mentre l’Italia si troverà a fare i conti con i risultati del voto sulla riforma costituzionale.
Il link si affianca a quello già esistente tra Hong Kong e Shanghai attivato a novembre del 2014. E come la connessione già esistente è considerato un ulteriore passo nella graduale apertura del sistema finanziario locale al capitale globale. All’inizio si pensava potesse partire già lo scorso anno. Ma il crollo delle borse cinesi della scorsa estate costrinse i leader cinesi a rivedere i propri piani. Per la luce verde del governo si è pertanto dovuto attendere lo scorso agosto, fissando in quattro mesi l’arco di tempo necessario all’avvio della doppia connessione. Un annuncio dato a ridosso del G20 dei capi di Stato e di governo ospitato ad Hangzhou, nel corso del quale Pechino ha rilanciato la propria visione di governance multipolare delle questioni internazionali, finanza ed economia incluse.
Il meccanismo funzionerà in entrambe le direzioni, dando l’opportunità agli investitori della Cina continentale di investire al Sud e a quelli internazionali di farlo sulla seconda borsa della Repubblica popolare, dedicata alla piccole e medie imprese e alle società innovative, quindi in prospettiva più allettanti rispetto alle grandi aziende pubbliche quotate a Shanghai, sebbene in alcuni casi considerate sopravalutate. Gli investitori avranno la possibilità di accedere a 880 titoli (sono 567 su Shanghai): le 270 quotate del main board, le 410 del listino dedicato alle piccole e medie imprese e le 200 società del ChiNext, simile al Nasdaq statunitense, queste ultime inizialmente riservate agli investitori istituzionali. Lo schema non prevede invece alcuna quota aggregata, che sarà abolita anche su Shanghai.
Lo schema parte in un momento di rilancio dei listini cinesi. A metà novembre lo Shanghai Composite Index è entrato di fatto in fase rialzista, dopo aver guadagnato oltre il 20 per cento dall’inizio dell’anno. Come scrive il Global Times, c’è ancora incertezza sulla possibilità che la connessione abbia un effetto significativo sul mercato azionario della Cina continentale. D’altra parte soltanto in poche occasioni nel già esistente collegamento tra Shanghai e Hong Kong è stata sfruttata a pieno la quota d’investimento concessa. Tuttavia per il tabloid il meccanismo servirà al processo di internazionalizzazione dello yuan trainato dall’aumento delle transazioni effettuate utilizzando la “valuta del popolo”. In prospettiva, secondo il giornale, la moneta può aspirare a diventare una valuta rifugio. Un processo che si lega anche all’ipotesi di aprire nella città del Sud della Cina una borsa metalli con l’intento di farla diventare una piattaforma di scambi internazionale.
L’apertura del link potrebbe inoltre favorire l’ingresso delle azioni A, ossia dei titoli scambiati sulle borse cinesi, nell’indice mercati emergenti di Msci, un traguardo mancato negli ultimi due anni perché l’apertura del mercato finanziario cinese non soddisfa le richieste della comunità internazionale. «È soltanto questione di tempo prima che gli investitori internazionali aumentino la propria esposizione su titoli della Cina Continentale», auspica ancora il Global Times.