Dragonomics – 2013: i dilemmi del Drago

In by Simone

Un’economia al bivio dopo gli anni del boom, ecco cos’è la Cina che si affaccia sul 2013. Vi proponiamo alcune linee guida per seguire quanto succederà a Pechino e dintorni nei prossimi mesi.

Ultima Dragonomics del 2012, ci si rivede a gennaio Maya permettendo. Se una pioggia di fuoco non metterà fine all’inarrestabile marcia verso il “secolo cinese” (o addirittura millennio!), ecco cosa tenere d’occhio nel nuovo anno.

CRESCITA
Ovvero far lievitare la torta. È il grande successo (e il grande biglietto da visita) della Cina negli ultimi dieci anni di incrementi a doppia cifra, ma oggi c’è qualche preoccupazione. La crescita a fine 2012 dovrebbe attestarsi sul 7,5 per cento secondo i più accreditati economisti cinesi (Bloomberg punta invece su un 7,7), che sarebbe la più bassa dal 2004. Fino a qualche anno fa si diceva che un tasso inferiore all’8 per cento sarebbe stato la catastrofe, perché in tal caso l’economia cinese non sarebbe stata in grado di assorbire i milioni di nuovi lavoratori che ogni anno si affacciano sul mercato.
Ma in breve tempo la Cina è cambiata e oggi l’enorme esercito industriale di riserva è in fase calante (“grazie alla” o “per colpa della” politica del figlio unico). Il Dragone ha soprattutto il problema di cambiare il proprio modello di sviluppo: trasformarsi da “fabbrica del mondo” a economia matura. La “conferenza economica nazionale” di fine anno ha lanciato lo slogan di “sviluppo sano e sostenibile”, che significa creare più produzioni ad alto valore aggiunto: nuovi settori e nuove eccellenze, per andare oltre alla “fabbrica”. Ma significa anche distribuire meglio la ricchezza.

REDDITO
Cioè, “redistribuzione del”, cioè uguaglianza. “Qualcuno si arricchirà prima di qualcun altro”, diceva Deng Xiaoping trent’anni fa, ma qui si esagera. 
L’indice Gini – il più accreditato strumento per calcolare la diseguaglianza a livello globale – colloca la Cina tra i Paesi più iniqui del pianeta, peggio degli Usa: gli ultimi dati parlano di uno 0,61 che è clamorosamente più alto del già notevole 0,438 dichiarato ufficialmente fino a poco tempo fa. Dati falsi e tendenziosi? No, arrivano da un centro studi della People’s Bank of China. Altri rapporti sempre cinesi rivelano che il 10 per cento delle famiglie più ricche ha una fetta della torta che è 65 volte più grande della parte di cui dispone il 10 per cento delle famiglie più povere.
Se tutti hanno più o meno beneficiato del boom degli ultimi dieci anni, ciò che stride oggi è la Ferrari del “principino” che sfreccia di fianco al carretto del venditore di patate dolci. Una delle più evidenti forme di diseguaglianza è quella tra chi vive in città e chi vive in campagna. Secondo l’ufficio nazionale di statistica, nel 2010 il reddito pro capite disponibile dei residenti urbani era di 19.109 yuan, quello dei residenti rurali era di 5.919 yuan.
In questo senso, sollevano qualche perplessità anche le parole del presidente uscente Hu Jintao a inizio lavori del congresso di un mese fa, quando annunciò che entro il 2020 i redditi dovranno raddoppiare. Il punto è che questo è già successo nel decennio scorso e, se si verificherà di nuovo senza distinguo, non farà che aumentare la forbice tra ricchi e poveri. I consumi dei primi surriscalderanno l’economia e l’inflazione galopperà, azzerando il “raddoppio” dei secondi. Più che aggiungere lievito alla torta bisogna quindi fare fette più eque.
Da questo punto di vista, giunge poco gradita la notizia secondo cui il grande “piano di riforma della ridistribuzione del reddito”, già posticipato a fine dicembre 2012, è stato rimandato per l’ennesima volta. Troppi interessi contrastanti all’interno dello stesso Partito e dello Stato, per giungere a una versione condivisa.
In ogni caso, un’eventuale redistribuzione del reddito dovrebbe aumentare la propensione al consumo dei cinesi, per la banale regola in base alla quale cento persone che dispongono di mille yuan acquistano più merci di una che ne ha centomila. È su questo che punta la leadership per spostare il baricentro dell’economia cinese dalle esportazioni alla domanda interna.

URBANIZZAZIONE
I ceti medi urbani sono i consumatori per definizione, il premier in pectore Li Keqiang ha quindi ripetuto più volte che i cinesi inurbati dovranno essere sempre di più, visto che anche se la popolazione delle metropoli ha per la prima volta superato quella rurale nel 2011, il 51 per cento di residenti in città restano ben al di sotto della media del’80 per cento nei Paesi di più antico sviluppo.
Nonostante la crescita lenta, i dati ufficiali rivelano anche che nelle aree urbane la creazione di posti di lavoro continua a ritmo sostenuto: oltre 10 milioni nei primi nove mesi dell’anno, già oltre l’obiettivo annuale di 9 milioni per il 2012.
Tuttavia la Cina ha un problema che si chiama bolla immobiliare. Il mattone tira per diversi motivi: con interessi bancari tenuti bassi per scelta politica e inferiori all’inflazione; con poche altre possibilità di investire i propri risparmi; con la necessità di garantirsi una vecchiaia serena e cure mediche efficienti facendo affidamento solo sulle proprie forze (il welfare è ancora insufficiente), i cinesi mettono i propri soldi nel settore che, unico, garantisca profitti certi. Questo a sua volta crea un circolo vizioso per cui palazzinari e funzionari locali puntano sul profitto certo di ulteriori cementificazioni, a prescindere dal fatto che le nuove case vengano effettivamente abitate.
Almeno finché la bolla non scoppia.
Come urbanizzare senza cementificare? Per ora non si capisce bene, ma il governo ha annunciato che continuerà a tenere sotto controllo il mercato immobiliare (frenando i prestiti bancari ai cosiddetti “sviluppatori”, cioè i palazzinari). Per ora sono solo parole, mentre i prezzi immobiliari continuano a crescere a vista d’occhio: tra i 33mila e i 36mila yuan in media a Pechino e Shanghai, con punte ben più elevate.

CAMPAGNE
L’urbanizzazione “incompleta” alla cinese ha già provocato disastri nelle campagne. L’esproprio delle terre a fini industriali prima, speculativi dopo; i bassi indennizzi ai contadini; la loro conseguente trasformazione in lavoratori migranti che costruiscono nuove case in città – rialimentando così il circolo vizioso – pongono ormai la Cina di fronte a due problemi ineludibili: le rivolte sociali nelle campagne e la scarsa produttività delle campagne stesse, ormai quantitativamente incapaci di sorreggere i consumi alimentari delle metropoli. Oltre a migrare, i contadini non sono incentivati ad investire eccessivamente nell’ammodernamento delle proprie tecnologie proprio perché “precari”. Così, restano tra i meno produttivi del mondo (un analista della Deutsche Bank, Michael Spencer, dice che un contadino cinese è quaranta volte meno produttivo di uno sudcoreano).
Per risolvere il problema, il governo sta avviando la riforma degli espropri di terreni agricoli, aumentando di almeno dieci volte gli indennizzi ai contadini. Spera così di disincentivare i funzionari locali e i palazzinari, destinando al tempo stesso i terreni a una riorganizzazione in imprese agricole moderne, più produttive, più capaci di sfamare il Paese. Inoltre, i contadini espropriati avrebbero più risorse economiche per cominciare una nuova vita. 

Tuttavia, alcune voci fuori dal coro ritengono che la riforma potrebbe avere un effetto diametralmente opposto alle intenzioni e risolversi in un incentivo dato ai contadini per cedere agli speculatori, con un conseguente ulteriore aumento vertiginoso dei prezzi immobiliari.

CREDITO
Da tempo, le autorità di Pechino cercano di tenere sotto controllo la bolla immobiliare attraverso la leva del credito, concesso dalle banche che sono controllate dallo Stato e rispondono quindi a criteri politici. Tuttavia, succede che gli istituti chiudono i rubinetti non solo ai palazzinari, ma anche ai piccoli imprenditori privati che già soffrono per la riduzione degli ordini dall’estero. Questi si rivolgono quindi al cosiddetto “credito ombra”, prestiti di altri imprenditori più fortunati, che sono però erogati a tassi da strozzinaggio. Nel 2011 si sono succeduti quindi fallimenti a catena, conditi da rivolte di maestranze infuriate e suicidi o fughe all’estero di padroncini.
Partendo dalla città simbolo della piccola-media impresa, Wenzhou, il governo ha cercato quindi di legalizzare e regolamentare il mercato finanziario sommerso. Le autorità hanno spinto i privati in possesso di liquidità ad aprire agenzie di microcredito, sotto la propria supervisione. È invece successo che si sono moltiplicati i crediti non performanti, significativamente anche detti ”deteriorati”: quelli che non tornano più indietro. Perché? Perché se la domanda internazionale resta stagnante, il piccolo imprenditore manifatturiero può accedere a tutti i prestiti del mondo, ma continuerà comunque a non restituirli. A questo punto, effetto perverso, i soldi sono di nuovo confluiti nel mattone. Lì almeno il ritorno è garantito. Per ora.

IMPRESE DI STATO
A chi finiscono i soldi che le banche di Stato non concedono ai piccoli imprenditori privati? Semplice: ad altre imprese di Stato (Soe), a detta di molti il vero e proprio settore da riformare drasticamente in Cina, perché ricettacolo di spreco e corruzione. 
Dopo le ristrutturazioni degli anni Novanta, le Soe hanno vissuto un periodo di gloria a partire dal 2000, quando facendosi interpreti del boom cinese, hanno visto aumentare i profitti netti da 320 miliardi di yuan (51,2 miliardi dollari) a 1.900 miliardi di yuan, con una crescita del 25,2 per cento l’anno tra il 2003 e il 2011.
Di fatto, delle 70 imprese cinesi inserite nella classifica “Global 500” di Fortune, 65 sono di proprietà statale, ma è anche vero che il settore privato è quasi per intero responsabile della più recente crescita occupazionale. C’è chi vuole mantenere lo status quo, chi vuole privatizzare, chi vuole riorganizzare e rendere più efficienti le grandi Soe. La posta in gioco, oltre alla ridistribuzione di risorse, è quello dell’innovazione. In quanto monopoli, le imprese statali sono considerate ostacoli alla concorrenza, cioè alla capacità di inventare il nuovo e a una competizione anche sui prezzi che andrebbe a tutto vantaggio dei clienti.

INNOVAZIONE
La diseguaglianza sociale e un sistema industriale in ritardo – incastrato tra piccole imprese in affanno, incapaci di reinventarsi come hi-tech, e grandi Soe che vivono spesso su una rendita di posizione – fanno sì che alla Cina manchino due ingredienti fondamentali per produrre innovazione. E l’innovazione è il prerequisito fondamentale per trasformare l’economia. Al Dragone mancano anche un sistema educativo adeguato (bisognerebbe per esempio indagare quanto sia no effettivamente "eccellenti" le maggiori università cinesi) e una libertà di pensiero che stimoli la circolazione di idee.
Il governo risponde investendo massicciamente in ricerca & sviluppo, ma la ricetta “quantitativa” che ha funzionato in altri settori non sembra essere sufficiente quando si tratta di intelligenza applicata.
Così, la Cina sembra essere oggi di fronte alla “trappola del reddito medio”, che si verifica quando un’economia emergente ha ormai superato la fase "basso costo del lavoro-alta competitività dell’export" senza essere però ancora in grado di produrre merci ad alto valore aggiunto per competere a un livello più elevato: quando si trova cioè a metà del guado.

È una matassa ingarbugliata e i nuovi leader cinesi devono scegliere da quali (e quanti) bandoli cominciare. Per ora siamo alle dichiarazioni di intenti. Ma la Cina, per le peculiarità del suo sistema politico, ci ha abituati a cambiamenti di direzione decisi nell’arco di un mattino. Sempre che poi trovino effettiva attuazione nella palude dei contrapposti interessi.

Nota a margine. Abbiamo tralasciato volutamente un tema che in Occidente va per la maggiore: la rivalutazione dello Yuan. È evidente che anche questo problema c’entra con la trasformazione dell’economia cinese in direzione dei consumi interni, ma a nostro avviso è oggi secondario per l’economia cinese (lo yuan si è già rivalutato più volte negli ultimi anni) ed è fondamentalmente uno strumento politico con cui diverse amministrazioni Usa cercano di fare pressioni su Pechino.