Dragonomics – Shenzhen-Tijuana solo andata

In by Simone

Gli Usa esternalizzano in Messico e, mentre il quicksourcing sostituisce l’outsourcing, la “fabbrica del mondo” si fa sempre più diffusa. I vantaggi competitivi del Dragone stanno per finire e Pechino sembra farsene una ragione.

La “fabbrica del mondo” è nomade come Karakorum, l’antica capitale dell’impero mongolo. Se oggi volete trovare lavoro a basso costo, lasciate perdere la Cina e andate invece a Tijuana, città messicana di confine nota soprattutto per narcotraffico e “cheap” tequila.
Ce lo racconta Chris Anderson dalle colonne del New York Times. Lui è l’ex direttore di Wired che lo scorso novembre ha mollato l’informazione per darsi a un’attività più redditizia: la costruzione di droni, gli aerei senza pilota noti soprattutto per le stragi “collaterali” che provocano in Afghanistan. I suoi, per carità, sono solo per uso civile – si affretta specificare Anderson – “e sono incredibilmente divertenti da costruire”.
C’è solo un problema: i principali concorrenti della sua start-up “sono aziende cinesi che hanno il doppio vantaggio di manodopera a basso costo e di alto livello tecnico”.
Che fare, dunque? Semplice, traslocare in Messico, a Tijuana.

La città, che si trova giusto a sud del confine californiano, può infatti “fare sistema” con la limitrofa San Diego. Proprio come Hong Kong e Shenzhen: manifatture di qui, hub finanziario di là. Le zone economiche speciali cinesi si esportano oltreoceano.
I droni di Anderson vengono progettati a San Diego, assemblati a Tijuana.
Questo modello è più quicksourcing che outsourcing, dice il neoimprenditore: è una faccenda di velocità, non di esternalizzazione. Il lavoro trasferito a Tijuana crea infatti occupazione anche negli Usa grazie alla “filiera corta” che ti permette di fare ordini just-in-time, abbattere i rischi, avere i pezzi più velocemente e, di conseguenza, innovare con più frequenza. Bingo! (passatemi l’esclamazione anglofona, a questo punto ci sta).

Trasferiamoci ora in Cina, nel Dragone alle prese con la sua transizione difficile. Il rischio è che smetta di essere “fabbrica del mondo” senza essere già qualcos’altro.
Ha un bel dire, Anderson: “manodopera a basso costo” e “alto livello tecnico”. La prima sta scomparendo, il secondo è tuttora work in progress.
Due erano infatti i presupposti originari del successo manifatturiero cinese: il lavoro cheap, appunto, e il renminbi debole.

Per quanto riguarda il primo, l’istituto nazionale di statistica ha annunciato il 18 gennaio che il numero di cinesi in età lavorativa si è ridotto lo scorso anno di 3,45 milioni.
La freddezza dei numeri non dà bene idea della svolta epocale: per la prima volta, il trend demografico che ha reso possibile il boom cinese si inverte.
C’entra la politica del figlio unico, ovvio, ma gli analisti calcolano che già ora non sia applicata con eccessivo scrupolo: ogni donna cinese mette infatti al mondo 1,47 figli in media. C’entrano invece i nuovi stili di vita, la ricchezza acquisita, la voglia di carriera e di successo personale. Si calcola che anche se il trentennale controllo delle nascite fosse revocato dall’oggi al domani, ogni figlia del celeste impero non metterebbe al mondo più di 1,62 figli. Le cinesi non tornano indietro.

Certo, c’è sempre l’esercito industriale di riserva costituito dai contadini che abbandonano le campagne; del resto, l’urbanizzazione è uno dei cavalli di battaglia della nuova leadership cinese. Meno agricoltori, più impiegati e operai, dunque. Ma questi nuovi lavoratori “inurbati” non saranno più a poco prezzo. Per incentivarli a lasciare le campagne, sarà infatti necessario promettere loro un migliore livello di vita.
L’operaio che lavora per una ciotola di riso non tornerà più. E, del resto, il governo di Pechino non vuole neanche che torni.
È la promessa di benessere che gli garantisce ancora il consenso.

Quanto al renminbi, le novità arrivano dal World Economic Forum di Davos, dove il vicegovernatore della banca centrale cinese, Gang Yi, ha appena annuciato che “la Cina è determinata a perseguire l’internazionalizzazione del renminbi […] per consentirgli di competere lealmente con il dollaro Usa e con l’euro sul mercato internazionale”. Il che significa, in prospettiva, lasciarlo fluttuare secondo leggi di mercato e non in base a scelte politiche.
Si sa che il valore basso della moneta cinese ha offerto alle merci made in China un vantaggio competitivo sui mercati mondiali. Certo, negli ultimi anni è stata più volte rivalutata e la sua banda di oscillazione (in base a leggi di mercato) è stata ampliata. Piccoli passi – secondo gli Usa – che attendono la riforma definitiva: la libera fluttuazione, appunto.
La Cina ha sempre resistito, ma le ultime dichiarazioni, prese con le dovute molle, sembrano indicare un trend ineluttabile: la Cina vuole ora una moneta forte che diventi valuta di riserva e di scambio, non più un’arma per “drogare” il proprio export.

I vantaggi competitivi stanno per finire e tutti questi segnali ci dicono che la Cina sta in qualche modo assecondando la nuova redifinizione degli equilibri globali. Scordiamoci la “fabbrica del mondo”, almeno così come abbiamo imparato a conoscerla, a servircene o a soffrirne. Il biglietto di sola andata Shenzhen-Tijuana è stato staccato.
A questo punto, il problema di Pechino diventa: come rendere il proprio sistema industriale di nuovo competitivo, ma a un livello più alto? Quando si riuscirà veramente a concorrere sull’”alto livello tecnico”, come dice l’ex direttore di Wired?
Lo vedremo a breve. Brevissimo.