Il Dragone in mezzo al guado. La Cina si sta avvicinando alla fine del dividendo demografico, ma l’innovazione del suo scheletro produttivo è ancora insufficiente. Davanti al Pcc, due scelte: o si cambia modello, o si rischia di restare impantanati.
La trappola si verifica quando un’economia emergente ha ormai superato la fase "basso costo del lavoro-alta competitività dell’export" senza essere però ancora in grado di produrre merci ad alto valore aggiunto per competere a un livello più elevato: quando, in estrema sintesi, ci si trova a metà del guado.
La Cina, a detta di analisti locali e stranieri, si troverebbe proprio lì. Dal 2008, i salari crescono più della produttività del lavoro e il surplus di manodopera a basso costo sta gradualmente esaurendosi. A breve, Pechino non potrà più trarre benefici dal proprio “dividendo demografico”, il vantaggio competitivo costituito dal fatto di avere una popolazione numerosa e giovane.
Un fenomeno che interessa per altro anche gli altri Bric: nel 2020, il numero di ultrasessantacinquenni residenti in Brasile, Russia, India e Cina arriverà a circa trecento milioni di individui; la popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni si ridurrà invece a circa sessanta milioni di persone. Con il numero di giovani si contrarrà anche il tasso di crescita, perché sono proprio loro che garantiscono sia i consumi sia la forza lavoro a basso costo.
Insomma, la Cina dovrà offrire merci e servizi sempre più evoluti per un mercato interno fatto, come dalle nostre parti, di vecchi moderatamente benestanti più che di giovani squattrinati; e non potrà al contempo esportare merci a basso costo facendo leva su un esercito industriale di riserva pronto all’uso.
L’innovazione problematica
Ma la Cina è pronta a questo passaggio? No, è la risposta diffusa.
Il primo è una massa critica di imprese incentivate a innovare. È l’attuale struttura industriale a essere un freno in questo senso. Le piccole aziende private che si confrontano quotidianamente con il mercato sono infatti stritolate dalla contrazione dei mercati internazionali e dall’impossibilità di accedere al credito. Restano quindi di piccole dimensioni, incapaci di reinventarsi come hi-tech, ad alto valore aggiunto.
Il secondo ingrediente che manca è l’uguaglianza sociale. Il coefficiente Gini della Cina è aumentato dallo 0,3 dei primi anni Ottanta allo 0,438 attuale (0 è la perfetta uguaglianza, 1 significa che un solo individuo controlla tutte le risorse di un Paese). Secondo una ricerca del 2011 la diseguaglianza sarebbe ancora più accentuata, visto che il 10 per cento delle famiglie avrebbe il 56 per cento del reddito complessivo. Giusto per intenderci, secondo questi dati la Cina sarebbe più diseguale degli Usa.
Il tempo delle riforme
Secondo Juzhong Zhuang, economista della Asian Development Bank, bisognerebbe quindi da un lato accelerare le riforme della struttura imprenditoriale, allocando meglio le risorse a disposizione: meno Stato e più mercato, per citare uno slogan in voga anche dalle nostre parti.
Più facile a dirsi che a farsi. Il problema è infatti politico, ma si sa che la politica deve fare i conti con resistenze, mediazioni e conflitti d’interesse.
Secondo Michele Geraci – capo del Global Policy Institute China e professore di finanza alla Zhejiang University – non è del tutto certo che il processo di trasformazione possa arrivare in tempo. In un articolo sul China Daily scrive infatti che l’ambiente giusto per l’innovazione richiede sia libero pensiero sia un adeguato sistema educativo, nonché il tempo necessario perché diano risultati: “Le richieste delle persone sono sempre più pressanti e la gente non ha tempo di aspettare che la Cina diventi la nuova Silicon Valley prima che la propria vita migliori”.
Pechino, Anni Azzurri
Insomma, il Dragone rischia di incagliarsi proprio ora, dopo trent’anni di boom. Non tutti se ne disperano.
La Cina potrà anche finire nella trappola del reddito medio: il capitale, si sa, trova sempre il modo di riprodursi.