Dragonomics – Il Bruco truffato

In by Simone

La Caterpillar è stata costretta a svalutare il valore della sua filiale cinese dell’80 per cento. Dietro, c’è una storia esemplare di non trasparenza contabile che è un monito per chi ha troppa fretta di sbarcare in Cina.

Occhio alla fregatura. Non solo nei mercatini di fake d’autore che pullulano in Cina, ma anche ai piani alti del capitalismo transnazionale.
Chi si è fatto prendere per il naso di recente è la Caterpillar, prima azienda al mondo nella produzione di macchinari per le costruzioni, l’estrazione e l’agricoltura.

La multinazionale statunitense ha appena annunciato una riduzione di 580 milioni di dollari sul valore della sua controllata cinese, ERA Mining Machinery Ltd, accusando il management di quest’ultima di “cattiva condotta contabile”. In pratica, i dirigenti cinesi avevano sovrastimato la redditività dell’azienda prima che fosse acquisita da Caterpillar nel giugno scorso per circa 700 milioni di dollari.

Dopo un’attenta analisi degli asset della società cinese, la direzione Usa ha preso atto che la “scatola” era in realtà molto più vuota di quanto si pensasse. La compagnia cinese è stata quindi svalutata dell’83 per cento, mica poco.

Il dirigente responsabile della transazione è già stato elegantemente “trasferito” e l’intera dirigenza cinese è saltata. Ma i buoi, ne frattempo, erano già scappati dalla stalla.

Caterpillar sta pesantemente investendo da decenni in Cina, dove ha più di 15mila dipendenti: circa il 12 per cento del totale mondiale. Katebilei (nome cinese della multinazionale) dispone oltre Muraglia di 23 stabilimenti di produzione e di quattro centri di ricerca e sviluppo; quattro nuovi impianti sono in costruzione. Eppure la Cina rappresentava solo il 3 per cento delle vendite totali della società. Ecco quindi l’ulteriore input e lo sbarco in grandi forze.

“In Cina giocheremo all’attacco e andremo a vincere”, prometteva l’amministratore delegato Doug Oberhelman agli investitori nel 2010. A quel tempo, la “Cat” non teneva il passo con la domanda di macchinari e perdeva quindi quote di mercato cinese rispetto ai concorrenti locali. Si affrettò dunque ad aprire nuovi stabilimenti. Forse la fretta è stata eccessiva, per una vicenda da considerarsi ormai esemplare.

Dopo un primo abboccamento con la Caterpillar, la ERA aveva pensato bene di rendersi più appetibile e costosa quotandosi alla borsa di Hong Kong. Per farlo, aveva deciso l’acquisto di un’altra compagnia cinese, la Siwei, specializzata nelle strutture di supporto delle gallerie in miniera e già presente sul mercato azionario. È quello che si chiama tecnicamente “reverse takeover”: fondersi con un’azienda già valutata in borsa per evitare tutte le lungaggini burocratiche e i controlli necessari a diventare public company.

Le “acquisizioni inverse” sono però da tempo nel mirino della US Securities and Exchange Commission, a causa di alcuni scandali contabili che hanno riguardato piccole aziende cinesi divenute public company attraverso questo strumento. E preoccupazioni per la "cattiva condotta contabile" e le questioni di corporate governance che riguardano società cinesi sono state già più volte espresse da analisti e grandi investitori.

Ma alla Cat, la verifica dell’effettivo valore della ERA deve essere passata in secondo piano di fronte alle opportunità offerte dal mercato cinese. La Cina è seduta su immensi giacimenti di carbone, la Cina funziona ancora in gran parte a carbone (si veda l’inquinamento di questi giorni a Pechino e dintorni), ha bisogno delle nostre macchine per estrarlo, devono essersi detti i dirigenti del “Bruco”. E così non hanno esitato a comprare tutto il pacchetto ERA-Siwei senza andare troppo per il sottile. “La Cina produce e consuma più carbone rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo”, insiste a ripetere e a ripetersi la Cat in una nota diffusa ieri.

La truffa contabile cancella di fatto la maggior parte del valore della transazione e, secondo gli analisti, spazza via più della metà degli utili relativi al quarto trimestre del 2012.
Caterpillar dichiara ora che i 580 milioni dollari di svalutazione sono pari a meno dell’1 per cento del valore di mercato della società, di circa 63 miliardi. Il Bruco non è per altro la prima azienda occidentale a inciampare in problemi contabili cinesi. Vallo a spiegare agli investitori: il problema, a questo punto, è soprattutto di fiducia.
E la vicenda getta soprattutto un’ombra sulle future acquisizioni lungo la rotta Washington-Pechino.