Il volume collettaneo I Civets. Il valore dell’approccio multipolare, pubblicato da Avatar editions, raccoglie le analisi che diversi studiosi hanno dedicato a questa composita entità e ai singoli Stati che ne fanno parte: Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica. China Files ha intervistato il curatore del volume, Luca Bionda, dal 2015 ricercatore associato nel programma di ricerca Eurasiadell’Isag, Istituto di alti studi e scienze ausiliarie.A voler fare una traduzione letterale il loro nome sarebbe «Zibetti», quadrupedi carnivori di medie dimensioni con pelo scuro a chiazze diffusi nell’Africa Sub-Sahariana. La loro capacità di adattamento e la loro energica tempra li accomunano in effetti a questi animali della famiglia dei viverridi, in grado di sopravvivere e prosperare anche in condizioni climatiche e ambientali difficili. Sono i Civets, acronimo coniato nel 2009 da Robert Ward, direttore dell’Economist intelligence unit del Gruppo Economist per indicare un gruppo di paesi comprendente Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica. Un soggetto geopolitico destinato secondo esperti e analisti a giocare un ruolo sempre più importante a livello globale, trasformandosi nel prossimo futuro in uno dei poli attorno ai quali si andranno condensando interessi strategici, politici ed economici di rilievo mondiale.
Il volume collettaneo I Civets. Il valore dell’approccio multipolare, pubblicato da Avatar editions, raccoglie le analisi che diversi studiosi hanno dedicato a questa composita entità e ai singoli Stati che ne fanno parte. China Files ha intervistato il curatore del volume, Luca Bionda, dal 2015 ricercatore associato nel programma di ricerca Eurasiadell’Isag, Istituto di alti studi e scienze ausiliarie.
«Paesi che possono contare su una popolazione numerosa, giovane e in crescita, in termini relativi tutti piuttosto stabili politicamente e che presentano debiti e deficit pubblici ragionevolmente bassi». Così il banchiere Michael Geoghegan ha definito i Civets. È una definizione appropriata?
Prima di tutto è bene precisare che il fattore della stabilità economica deve essere letto nel contesto di un periodo storico, il nostro, fatto di sconvolgimenti e mutamenti anche rapidi di difficile interpretazione. Pensiamo ad esempio alla Turchia, quanti analisti avrebbero potuto prevedere con sufficiente anticipo il comportamento enigmatico di Ankara nell’ambito della guerra civile siriana, delle relazioni diplomatiche russo-turche o ancora del fallito golpe di luglio? Ciò detto, come indicatori macreconomici, per comprendere le ragioni dell’interesse che gli esperti hanno per i Civets, il dato più indicativo è forse il tasso di crescita del Pil, indicato in termini percentuali su base annua. Pur considerando infatti le attuali difficoltà ed escludendo il Sudafrica, tutti i paesi Civets fino al 2015 hanno fatto registrare un tasso superiore al 3 per cento, con livelli di assoluto valore per Indonesia (4,8 per cento) e Vietnam (6,7 per cento). Si tratta di performance che negli anni precedenti erano ancora più evidenti, soprattutto se comparate con una economia pressoché stagnante come quella odierna italiana (0,8 per cento) o dell’Area Euro (1,7 per cento).
Geoghegan ha anche definito i Civets come “i nuovi Brics”. Quali sono le differenze tra queste due entità?
In realtà il paragone con i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ndr) potrebbe apparire ad oggi poco realistico, dato che le differenze tra i due raggruppamenti economici sono molteplici. Dal punto di vista geoeconomico i Brics sono decisamente troppo grandi per essere paragonati ai Civets. Solo a livello demografico, per esempio, i paesi Brics comprendono oltre il 42 per cento della popolazione mondiale, con oltre 3 miliardi di persone, mentre la popolazione dei Civets è pari a circa 600 milioni di persone. Geograficamente i Brics occupano circa il 25 per cento della totale estensione delle terre emerse mondiali. Contrariamente al caso dei Civets, tali territori racchiudono anche gran parte delle risorse energetiche, idriche e minerarie del nostro pianeta. Ne consegue che le economie dei Brics valgono oggi circa il 20 per cento del Pil mondiale. È importante notare che numerosi accordi bilaterali tra i singoli paesi dei due schieramenti sono in fase di progressiva e continua espansione. Si possono citare a titolo di esempio i rapporti tra Russia e Vietnam o ancora tra Russia e Indonesia, derivanti dagli accordi sanciti tra Mosca e gli Stati dell’Asean. La Russia mira infatti a intensificare gli scambi commerciali con il Sud-Est Asiatico, creando una zona di libero scambio con l’unione eurasiatica e migliorando la cooperazione in materia di sicurezza, traffico di stupefacenti e terrorismo. Così facendo Mosca si assicura un canale diplomatico privilegiato con una macroregione destinata a giocare in futuro un ruolo chiave nell’economia mondiale.
Tutti i Civets, con l’eccezione di Colombia e Sud Africa, sono anche «membri» dei Next Eleven individuati da Goldman Sachs e dall’economista Jim O’Neill. Anche in questo caso, cosa distingue i due gruppi?
I criteri usati da Goldman Sachs per raggruppare i N-11, ugualmente ai Civets, riguardano la stabilità macroeconomica, una certa «maturità» politica, l’apertura verso moderne politiche commerciali e di investimento, la qualità dell’istruzione pubblica. Nel contesto economico odierno le economie dei Civets, come dei N-11, si trovano in difficoltà, come testimoniato dal ribasso degli assets del fondo Goldman Sachs N-11 i quali, in circa tre anni, hanno perso quasi il 50 per cento rispetto all’agosto del 2013. Risultati migliori, anche se ugualmente con segno negativo, sono stati registrati per fondi focalizzati sui Brics, un dato sorprendente se si pensa che nelle prospettive di O’Neill i N-11, come i Civets, avrebbero potuto «sostituire» i Brics nella scalata delle classifiche economiche mondiali. È utile comunque evidenziare che la definizione dei cosiddetti N-11 risale al dicembre 2005, un anno prima delle avvisaglie iniziali della crisi dei mutui sub-prime, evento riconosciuto come fondamentale per la crisi economica mondiale. Guardando oltre le performance attuali delle economie emergenti, comunque, è evidente che il potenziale per imporsi sulla scena mondiale c’è e rimarrà nel tempo.
Corruzione, disoccupazione e forti sperequazioni sociali sono alcuni dei principali problemi con cui i Civets sono chiamati a confrontarsi. I governi di questi paesi stanno portando avanti delle politiche efficaci?
La volontà di combattere questi problemi senza dubbio esiste, come dimostrano ad esempio le frequenti dichiarazioni governative o i risultati della lotta al narcotraffico sudamericano e del Sud-Est Asiatico. È però difficile valutare i risultati raggiunti e capire se possano essere ulteriormente migliorati. Ritengo che in linea generale tutti i paesi Civets abbiano compiuto, coerentemente con il loro sviluppo, passi significativi nella lotta alla disoccupazione o alla corruzione, come dimostra il crescente interesse dei paesi maggiormente sviluppati verso i Civets. Non a caso investimenti esteri e riforme interne vanno spesso di pari passo, dato che queste ultime facilitano l’industrializzazione e rendono più concrete le possibilità di successo di investimenti stranieri. Che nel caso dei Civets non si focalizzano solo sulle materie prime, ma su un processo di industrializzazione che richiede per esempio riforme nel settore dell’istruzione pubblica, un aspetto che a medio termine può ripercuotersi sulla sfera sociale, la stabilità sociopolitica, eccetera.
Tra i Civets c’è un Paese più «promettente» degli altri? Qual è invece quello più «problematico»?
Complessivamente direi che tutti i paesi sono promettenti, anche se forse l’Indonesia ha dimensioni e risorse tali che le consentono di svettare sugli altri. Viceversa Egitto e Turchia possono essere ritenuti i più problematici, a causa dell’esposizione alla crisi finanziaria e delle tensioni che interessano il Vicino Oriente, che non si prevede possano risolversi a breve. Senza contare che il recente tentativo di colpo di Stato in Turchia ha contribuito a incrinare almeno parzialmente la fiducia di economisti e investitori esteri. A livello economico, invece, il paese con i maggiori problemi è senza dubbio il Sudafrica.
I Civets possono essere partner commerciali o strategici interessanti per l’Italia e l’Europa?
Assolutamente sì. L’interesse italiano è testimoniato dalle crescenti iniziative diplomatico-economiche, tra cui ad esempio la visita del presidente Mattarella in Vietnam e Indonesia nel novembre scorso. L’Italia guarda soprattutto alla cooperazione nello sviluppo tecnologico e infrastrutturale dei paesi Civets, nonché all’export di tecnologie italiane per l’industria e l’agricoltura. Le classi medie dei Civets sono attratte dalla produzione di qualità “made in Italy” (moda, auto, design, eccetera), così come risultano in crescita le importazioni in Italia dai paesi Civets, ad esempio nel ramo tessile.
Сon una popolazione di oltre 250 milioni di abitanti l’Indonesia può essere considerato «il colosso» dei Civets. Quali sono le caratteristiche distintive di questo paese rispetto agli altri? Che ripercussioni sta avendo il nuovo corso politico iniziato con la vittoria di Joko Widodo dopo dieci anni di presidenza di Susilo Bambang Yudhoyono?
Fondamentalmente gli aspetti più interessanti dell’Indonesia risiedono nella multisettorialità della sua economia. Si tratta di un paese in grado di esportare minerali (ad esempio stagno, rame, oro) e risorse energetiche, ma che al tempo stesso ha raggiunto importanti traguardi nello sviluppo del settore tessile e manifatturiero. In più possiede un comparto agricolo di rilievo e dagli ampi margini di crescita, che impiega quasi la metà della forza lavoro indonesiana, pur producendo meno di un quarto della ricchezza del paese. A livello geopolitico Jakarta ha inoltre un ruolo primario nell’Asean, gruppo a cui guardano con grande interesse anche i paesi Brics. Per quanto riguarda Joko Widodo, a distanza di soli due anni dalle elezioni, probabilmente è ancora presto per poter valutare gli effetti del nuovo corso sull’economia indonesiana. Contrariamente ai suoi predecessori, che si sono fatti strada partendo da lunghe carriere militari, Widodo appare effettivamente come un politico “nuovo”, espressione della società civile, relativamente giovane e proveniente da un ceto sociale non benestante.
Negli ultimi 30 anni il Vietnam ha conosciuto un rapido e intenso sviluppo. Da Paese povero e arretrato si è trasformato in una delle nuove tigri asiatiche. Questa crescita però ha portato con sé molti problemi. Riuscirà la dirigenza del partito comunista a vincere la “scommessa” di uno sviluppo equilibrato e socialmente condiviso e a mantenere il controllo sul Paese?
Le premesse per una risposta affermativa alla domanda, a mio avviso, ci sono tutte. Le riforme economiche e sociali vietnamite, indicate con il termine Doi Moi, che significa «rinnovamento», hanno permesso un vero cambio di passo, a riprova del legame inscindibile esistente tra riforme e sviluppo economico. L’aspetto interessante, che accomuna ad esempio il Vietnam alla Cina, è che pur essendo legati a strutture politiche di tipo comunista, questi paesi hanno saputo cogliere le opportunità derivanti dall’internazionalizzazione, dal “capitalismo” e dall’economia di mercato. Contrariamente ad esempio all’ex-Unione sovietica, nel caso del Vietnam il passaggio è stato meno traumatico, più maturo e ragionato, senza privatizzazioni affrettate o svendita all’estero di elementi fondamentali per lo sviluppo dell’economia e della società civile. Con la riforma delle imprese di Stato sancita dal Doi Moi queste sono diventate delle entità compiute, con piena responsabilità gestionale dei propri risultati economici. Le grandi imprese vietnamite hanno dimostrato poi una tendenza a raggrupparsi o a fondersi, riposizionandosi sotto il controllo statale, mentre le piccole e medie imprese hanno subito un più chiaro processo di privatizzazione. In tale quadro è evidente come la volontà del nuovo esecutivo e del neopresidente Tran Dại Quang, al pari del suo predecessore, sia quella di proseguire sulla strada di un “capitalismo di orientamento socialista” che, a conti fatti, sta dando senza dubbio risultati positivi.
*Paolo Tosatti si è laureato in Scienza Politiche all’università "La Sapienza" di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto Internazionale. Ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso e successivamente è diventato giornalista professionista. Si occupa di Paesi asiatici dal 2005.
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