In queste settimane risulta più chiara che mai la distanza tra l’India descritta dal governo Modi, sulla via della pacificazione e della crescita grazie alla mano santa di NaMo che sta portando investimenti nel paese, e quella che si vede e si legge tutti i giorni standoci dentro. Il paese è attraversato da scontri sempre più violenti in reazione alla repressione governativa, sul tema della libertà d’espressione e della discriminazione, e alle promesse non mantenute a segmenti di elettorato un tempo fedele, come dimostra la recentissima mobilitazione violenta della comunità Jat in Haryana. Tensioni che non sono destinate a scemare molto presto.In questi giorni il governo indiano sta registrando i minimi storici di popolarità nel paese, a quasi due anni dall’elezione di Narendra Modi a capo dell’esecutivo. Sembra che una serie di problemi evidenti, e forse troppo a lungo sottovalutati, siano venuti al pettine contemporaneamente, facendo piombare il Bharatiya Janata Party (Bjp) – il partito della destra hindu al governo – al centro del fuoco incrociato di diversi segmenti della società indiana. Che, seppur per motivi molto diversi, si sono mobilitati in manifestazioni di dissenso inedite nel passato recente, quando sembrava invece che la luna di miele tra l’Uomo del Fare Modi e la popolazione indiana potesse non finire mai.
Schiacciare il dissenso per salvare la nazione
Partiamo dalle proteste universitarie della Jawaharlal Nehru University (Jnu) – di cui abbiamo parlato estensivamente qui, qui e soprattutto qui – capaci di diffondersi a livello nazionale e innescando una mobilitazione studentesca che sta toccando tutte le università pubbliche dell’India, oltre ad aver attirato l’attenzione internazionale davanti all’evidente minaccia alla libertà d’espressione rappresentata dai «falchi» del governo.
Considerando tutti gli episodi che negli ultimi mesi hanno scosso l’opinione pubblica indiana – dall’«intolleranza» denunciata dagli intellettuali passando per il linciaggio di Mohammad Akhlaq in Uttar Pradesh fino ad arrivare al suicidio di Rohith Vemula all’Università di Hyderabad – si intravede uno zelo eccessivo da parte di almeno due esponenti del governo in carica: la ministra delle risorse umane Smriti Irani, accusata di ingerenza eccessiva e indebita negli affari universitari nazionali (tra lettere inviate ai rettori e nomine dall’alto invise al corpo docenti di diversi atenei nazionali), e il ministro degli interni Rajnath Singh, responsabile dell’intervento della polizia di New Delhi all’interno del campus di Jnu (l’ultima volta era successo nel 1975, ai tempi della dittatura dell’Emergency di Indira Gandhi).
Irani e Singh, secondo i detrattori, agirebbero in concerto con le forze extraparlamentari dell’ultrainduismo, che attraverso la Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) e l’Akhil Bharatiya Vidiarthi Parishad (Abvp, la sigla studentesca dell’Rss) porterebbero avanti azioni di disturbo e provocazione, creando di volta in volta «il caso» – scazzottata tra studenti, manifestazioni davanti alle sedi dell’Rss, dichiarazioni al vetriolo della parte lesa – lasciando poi che le autorità, imbeccate dal governo, applichino misure repressive sproporzionate (come l’arresto del leader studentesco Kanhaiya Kumar) giustificate dalla «salvaguardia dell’unità nazionale».
Agendo di questo passo, il risultato è stato portare il dibattito nazionale su un piano di isteria collettiva che non riesce più a discernere il dissenso – legittimo e dovuto, in un paese democratico – dalla minaccia della disgregazione nazionale. In questo senso il termine «anti nazionale», introdotto e ripetuto allo sfinimento da esponenti del Bjp per indicare i «nemici dell’India», si è trasformato in un’etichetta da affibbiare immediatamente a chiunque osi esporre punti di vista diversi da quello della vulgata governativa, in uno scarto semantico che vede la nazione coincidere con il governo, e non con l’insieme – estremamente variegato – della popolazione indiana.
Il malcontento delle caste disilluse dall’Indian Dream
Parallelamente al dissenso sul piano della libertà d’espressione, dopo la protesta dei Patel in Gujarat la scorsa settimana si sono mobilitati anche i Jat in Haryana. Notizia che ha guadagnato eco internazionale dopo che i manifestanti sono riusciti a prendere il controllo del canale di Munak, a pochi chilometri da New Delhi, bloccando l’approvvigionamento d’acqua in alcune zone della capitale (per un giorno e mezzo, ora l’acqua pare ci sia, per quanto possa esserci in una città dove il problema della rete idrica è enorme, e da ben prima della protesta dei Jat).
Nel racconto, talvolta un po’ frettoloso, che è stato fatto della questione in Italia, i Jat sono stati descritti come contadini poveri che volevano un aiuto – negato dal governo – per accedere a posti di lavoro statali bloccati attraverso le quote delle «reservation», fissate dalla legge indiana per incentivare l’affrancamento dalla povertà e dall’isolamento sociale delle caste basse. Le cose non stanno proprio così.
I Jat, come d’altronde i Patel del Gujarat, sono comunità castali considerate, prendendo a prestito le parole di Tommaso Bobbio, «medio basse, in mobilità verso l’alto»: sono tradizionalmente piccoli proprietari terrieri con posizioni di rendita di tutto rispetto nella prima fase della crescita indiana dell’inizio anni ’90. Ma negli ultimi anni, quando l’India ha rallentato visibilmente per un mix di problemi infrastrutturali e crisi economica del 2008, le aspirazioni di una generazione sicura di non voler vivere come i propri genitori – legati all’economia poco fruttifera dell’agricoltura, che tra l’altro obbliga a un legame fisico col territorio di provenienza che preclude le «luci della città» indiana a una generazione cresciuta sognandole – si sono scontrate con la mancanza di posti di lavoro «desiderabili» dai giovani Jat e Patel. Che, nel frattempo, si vedevano sistematicamente «scavalcati» da giovani delle caste basse che, grazie alle reservation, hanno accesso «privilegiato» a posizioni amministrative e universitarie.
I Jat, come i Patel, hanno investito politicamente nel Bjp, che ha promesso posti di lavoro e nuove opportunità contando sull’effetto boom dell’azione di Modi. Cosa che, palesemente, non si è ancora concretizzata. Per questo Jat e Patel si sono mobilitati con violenza nei rispettivi stati, governati entrambi – non a caso – da esponenti del Bjp che loro stessi avevano votato.
I nodi al pettine
A due anni dalla vittoria alle elezioni nazionali, la maggioranza di governo in questi giorni sta affrontando una sessione parlamentare cruciale, dove il ministro delle finanze Arun Jaitley dovrà presentare la nuova legge di stabilità indiana (edit: presentata oggi, ne parleremo domani, nda), nella speranza di ravvivare la «fiducia nei mercati» e attrarre maggiori investimenti nel paese.
Il governo, in una fase così delicata, si trova a dover gestire contemporaneamente due fronti del dissenso – quello dei disillusi e quello dei «progressisti» – attorno ai quali si è riunita tutta la variegata opposizione parlamentare, che sta di fatto paralizzando l’azione legislativa sostenuta invece dal governo in carica.
Il problemi di Modi sono sempre due: far seguire i fatti alle promesse, tenendo a bada una parte consistente del proprio elettorato che ha creduto nel suo progetto; e, soprattutto, gestire le spinte estremiste che arrivano dall’interno della sua maggioranza, sempre ammesso che – come dà a vedere lo stesso Modi – il primo ministro non sia davvero più allineato ai rigurgiti pseudofascisti dell’ultrainduismo. E che il caso Jnu non sia stato inscenato per distrarre l’opinione pubblica da problemi ben più seri in campo economico.
[Scritto per Eastonline]