È il progetto di riforestazione più famoso al mondo. Ma anche un esempio di cosa serve e cosa non bisogna fare per contrastare l’avanzamento dei deserti. Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Qui per le altre puntate
Novembre 2024: nel distretto desertico di Yutian, nella regione autonoma dello Xinjiang, è stata completata l’ultima tratta di quella che il governo cinese definisce “la muraglia verde”. L’annuncio arriva dopo oltre quarant’anni dall’inizio di un progetto che, per molti, ha fatto scuola. Il Three-North Shelterbelt Programme (TNSP) è stato lanciato nel 1978 con l’obiettivo dichiarato di fermare l’espansione dei deserti della Cina settentrionale. A oggi è considerato il più grande progetto di riforestazione al mondo.
La sua ambizione è visibile già dai numeri: lungo oltre 3 mila chilometri, in alcuni punti supera il chilometro in larghezza. Alle sue spalle, il deserto del Taklamakan, che per estensione copre un’area pari a quella della Germania. Non è però tutto così semplice: dietro alle piante ben allineate lungo i confini di una delle zone più aride del paese c’è un lavoro che ha tanti vantaggi quante criticità, e che oggi rappresenta uno spunto di riflessione davanti alle crescenti sfide dei cambiamenti climatici.
Dai deserti mobili alla cintura verde: un’impresa lunga 70 anni
È negli anni Settanta che le autorità cinesi iniziano a fare i conti con l’allarmante dato dell’avanzamento della desertificazione nella Repubblica popolare. A quei tempi la Cina perdeva circa 1500 km² di terra fertile ogni anno. Dalla deforestazione aggressiva al pascolo eccessivo, fino a metodi di coltivazioni non sostenibili, un mix di fattori stava accelerando paurosamente il declino delle aree verdi nel nord del paese, già penalizzate da un clima arido e dalla scarsità di fonti idriche.
Per rispondere a questa crisi, Pechino ha lanciato nel 1978 il TNSP, poi diventato noto come “Great green wall of China”, che si estende su 13 province, coprendo 4 milioni di km² tra regioni aride, semi-aride e subumide secche. L’obiettivo guardava molto più avanti di oggi: il governo prevedeva di piantare almeno 100 miliardi di alberi entro il 2050 per riconvertire le aree degradate in ecosistemi stabili. Secondo le autorità, fino a oggi sono già stati piantati oltre 30 milioni di ettari di foreste – un’area grande quanto l’Italia – e la copertura forestale nazionale è passata dal 10% del 1949 al 25% del 2023.
In effetti, segnalano degli studi, ci sarebbero dei vantaggi dati dall’introduzione delle specie arboree. Nell’area nordorientale del Kubuqi, ad esempio, si è registrata una riduzione sensibile delle tempeste di sabbia e una parziale stabilizzazione delle dune. Dal 2009 al 2014, la frequenza delle tempeste a livello nazionale è scesa di un quinto.
L’impatto del progetto
Una serie di studi condotti dal Northwest Institute of Eco-Environment and Resources suggerisce che la riduzione della desertificazione in Cina sia dovuta solo in parte agli interventi di riforestazione. L’altro fattore, forse più decisivo, sarebbe invece l’aumento delle precipitazioni registrato nelle regioni settentrionali del paese negli ultimi due decenni. In altre parole: in assenza di un clima più umido, la “muraglia verde” avrebbe avuto effetti ancora più limitati.
A confermare la portata parziale dei risultati sono anche i dati: in dieci anni, la superficie arida della Cina è passata dal 27,2% al 26,8%. Un cambiamento modesto, considerando le risorse impiegate nel progetto TNSP. E in alcuni casi, i tentativi di frenare la desertificazione hanno finito per aggravarla. Nei primi anni del progetto, funzionari locali hanno spesso optato per piantumazioni massive di specie non autoctone, come i pioppi, scelti per la loro rapidità di crescita. Ma questi alberi, inadatti ai climi secchi, hanno spesso richiesto enormi quantità d’acqua e, in casi estremi, prosciugato le falde acquifere locali, lasciando il terreno più vulnerabile di prima.
Imparando dagli errori
Un’indagine pubblicata su GIScience and Remote Sensing nel 2023 ha rilevato che solo il 10% degli alberi piantati negli anni Ottanta è sopravvissuto fino a oggi. Inoltre, in aree come la provincia di Ningxia, gli attacchi dei parassiti hanno decimato milioni di pioppi, vanificando anni di lavoro e milioni di yuan in investimenti.
C’è poi un altro effetto collaterale meno visibile: il consumo idrico. Gli alberi, soprattutto quelli a crescita rapida, richiedono molta più acqua rispetto ad arbusti o erbe autoctone. Secondo uno studio del 2020 pubblicato su Scientific Reports, la riforestazione nel sud-ovest della Cina potrebbe assorbire fino al 10% della risorsa idrica annuale disponibile nella regione. In ambienti già in crisi per scarsità idrica, questo rappresenta un rischio sistemico.
Negli ultimi anni, anche grazie a un maggiore coinvolgimento della comunità scientifica e a un’attenzione crescente per l’impatto a lungo termine, i progetti di riforestazione cinesi hanno iniziato a prendere una direzione diversa. Non più solo alberi, ma paesaggi misti: combinazioni di alberi, arbusti, piante medicinali, pannelli solari e persino terreni ad uso agrovoltaico con specie da reddito come noci, datteri e liquirizia.
A Duolun, nella Mongolia Interna, una strategia mirata ha migliorato la copertura forestale stabilizzando le dune. In altre aree, i pannelli solari installati sulle sabbie hanno creato microclimi favorevoli alla crescita vegetale, riducendo l’evaporazione del suolo. Infine, sono fioriti progetti come Ant Forest, una app sviluppata da Ant Financial, consente agli utenti di “piantare” alberi virtuali accumulando crediti ecologici. Una volta raggiunta una determinata soglia, l’albero viene piantato realmente in aree degradate.
Tra retorica, resistenze e realtà sul campo
Nonostante i segnali di innovazione, le tensioni tra politiche ambientali e interessi locali rimangono. In Gansu, alcuni contadini sono stati accusati di abbattere alberi piantati per il progetto e sostituirli con vigneti, più redditizi. Altri denunciano restrizioni imposte all’uso del suolo agricolo. Il presidente Xi Jinping, parlando nel 2023 con funzionari della Mongolia Interna dopo un aumento di tempeste di sabbia nella capitale, ha riconosciuto che la battaglia contro la desertificazione è “paragonabile a spingere una pietra su per una collina”: non un progetto da completare, ma una sfida permanente.
Secondo Feng Wang, dell’Istituto di desertificazione dell’Accademia cinese di silvicoltura, il problema principale è “un eccesso di popolazione nelle terre aride, che supera la capacità ecologica di rigenerazione di queste aree”. Ovvero serve la necessità di riequilibrare attività umana, risorse naturali e resilienza degli ecosistemi.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.