L’hanfu, un abito tradizionale cinese, è diventato il simbolo di un movimento che fonde moda, tradizione storica e identità. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Qui per le altre puntate.
Le strade ricche di bancarelle a Xi’An, i viali alberati di Hangzhou, la piazza del Tempio del Cielo a Pechino: è sempre meno raro vedere coppie o gruppi di giovani che passeggiano con abiti dai lunghi drappeggi, colletti incrociati e maniche ampie. Si chiamano hanfu (汉服), letteralmente “vestiti Han”, e sono diventati il simbolo di un movimento che fonde moda, tradizione storica e identità. Ma dietro al ritorno delle gonne di seta e delle cinture intrecciate c’è molto più di un trend estetico: è un modo, per una generazione cresciuta nella globalizzazione, di cercare un linguaggio nuovo per esprimersi attraverso la tradizione.
Una moda dal passato
“Non è cosplay, è cultura”. È questa una delle frasi che più spesso si leggono sui social frequentati dai giovani che indossano hanfu durante festival, matrimoni o semplici passeggiate nei parchi. Gli abiti ispirati all’epoca Han sono tornati alla ribalta negli ultimi dieci anni, ma la loro storia risale a tempi lontani: la foggia risale alle dinastie precedenti ai Tang (618-907), quando il vestiario delle classi abbienti aveva un suo proprio linguaggio, rappresentando l’ordine cosmico e sociale. La caduta della dinastia Ming nel XVII secolo e l’ascesa dei Manciù, con il qipao e le nuove mode della corte Qing, segnarono però una rottura. Da allora, l’hanfu scomparve quasi completamente dall’uso quotidiano, sopravvivendo come rimando storico o abito di scena nelle rappresentazioni dell’opera.
La sua riscoperta nasce all’inizio dei Duemila, grazie a piccoli gruppi di appassionati che iniziarono a ricreare gli abiti sulla base di reperti e dipinti antichi. Il primo evento interamente dedicato a questo mondo risale al 2003, quando un giovane ingegnere, Wang Letian, attirò l’attenzione dei media indossando un completo Han per le strade di Zhengzhou. Da gesto marginale, la scelta divenne presto un fenomeno di massa. Oggi, secondo la China National Garment Association, il mercato hanfu vale oltre 1,5 miliardi di dollari, con più di 7 milioni di consumatori e decine di migliaia di marchi specializzati.
Tradizione o invenzione?
La diffusione dell’hanfu tra le nuove generazioni non è però scevra di dubbi e criticità. C’è chi lo considera un’espressione autentica del “rinascimento culturale” cinese, in linea con il discorso ufficiale sulla “fiducia culturale” (wenhua zixin 文化自信) promosso da Xi Jinping. E chi invece vi legge una costruzione artificiale, una forma di “nostalgia performativa” che rielabora il passato per renderlo compatibile con la sensibilità del presente.
Secondo South China Morning Post, la popolarità del movimento ha spesso incrociato la sfera del nazionalismo online, con segmenti di pubblico che rivendicano l’hanfu come “vestito dei cinesi Han”, distinto da quello delle minoranze etniche. Un terreno scivoloso, perché rischia di politicizzare una rinascita che molti percepiscono come intima e culturale, più che identitaria in senso esclusivo. Parallelamente, i media statali come CGTN e il Quotidiano del Popolo hanno scelto di valorizzare il fenomeno in chiave positiva, legandolo a un rinnovato orgoglio nazionale e alla capacità dei giovani di “modernizzare la tradizione”.
Una nuova filosofia del “tempo”
Ma la rinascita dell’hanfu non riguarda solo la moda. È anche un discorso sul corpo e sulla gestione dei propri tempi e spazi personali in un mondo che preme l’acceleratore. Per i suoi estimatori, indossare abiti storici costringe a rallentare, a gestire lo spazio con gesti misurati, a prendere consapevolezza del proprio corpo. In un mondo di velocità e algoritmi, il corpo vestito in hanfu diventa una forma di meditazione laica, una performance di lentezza. Come racconta a Vogue la studentessa Li Xue: “Quando indosso l’hanfu mi sento parte di qualcosa di più grande, come se stessi attraversando il tempo senza muovermi”.
Per molte giovani donne è anche un modo per superare un’estetica femminile che non coincida con i modelli occidentali o con gli eccessi delle mode “moderne”. La dimensione rituale non è casuale: nella tradizione confuciana, l’abito (fu 服) è il simbolo dell’ordine morale e del rispetto delle forme di confuciana memoria (li 礼). Riappropriarsene, oggi, significa poter rinegoziare il rapporto tra individuo e collettività, tra spontaneità e disciplina.
Dal revival alla quotidianità
Oggi gli appassionati di hanfu organizzano festival in tutto il paese, dai raduni primaverili nei giardini imperiali di Pechino alle sfilate di Xi’an. Molti marchi stanno creando interpretazioni in chiave moderna partendo dai modelli dell’antichità, con tessuti sintetici e tagli semplici. Le app di e-commerce come Taobao e Xiaohongshu hanno reso il movimento accessibile a milioni di utenti, creando una comunità digitale dove si mescolano tutorial, discussioni storiche e riflessioni filosofiche.
Non manca chi, come gli studiosi dell’Università di Fudan, parla di un “estetismo del patriottismo soft”: un modo di fare cultura nazionale attraverso la moda, più vicino al bisogno di sentirsi parte di una comunità che alla propaganda vera e propria. Altri lo definiscono una “forma di cittadinanza culturale”, in cui i giovani partecipano attivamente alla produzione di significato, tra autenticità e reinterpretazione.
Come il weiqi (ne avevamo parlato in questa puntata di Dialoghi) o la calligrafia, infatti, anche l’hanfu rientra in quel movimento di recupero delle arti tradizionali che caratterizza le nuove generazioni cinesi. In una società che cambia con estrema e spiazzante rapidità, la tradizione diventa uno strumento per costruire continuità e dare senso al proprio Io. Non nostalgia, ma una “modernità riflessiva” che cerca equilibrio tra radici e necessità di cambiamento.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.
