Il Fondo monetario internazionale invita Pechino a procedere con le riforme e indaga i contraccolpi che il nuovo modello di crescita cinese, basato sui consumi, potrebbe avere sull’economia mondiale. Ma non mancano ammonimenti nemmeno da parte degli economisti cinesi. A storcere il naso è persino il padre della «Likonomics».
Senza le dovute riforme, la Cina rischia di destabilizzare l’economia globale. A lanciare l’allarme è il Fondo monetario internazionale, che nel consueto rapporto trimestrale (World Economic Outlook) pubblicato lunedì invita Pechino a stabilizzare il proprio mercato finanziario per scongiurare il verificarsi di un effetto spillover, termine con cui in economichese si definisce la diffusione di una situazioni di squilibrio da un mercato all’altro. Un avvertimento che acquista significato alla vigilia dell’ingresso ufficiale (1 ottobre) dello yuan nei diritti speciali di prelievo, moneta ‘virtuale’ basata su un paniere di valute con cui Pechino gradirebbe rimpiazzare l’egemonia del dollaro nelle transazioni internazionali. Si tratta di fatto di un riconoscimento simbolico che l’istituto vorrebbe ripagato con maggiori responsabilità da parte della seconda economia mondiale. E soprattutto con più trasparenza nei processi di policy making (qualcuno forse ricorderà quando a inizio anno Pechino cominciò di punto in bianco a regolare il renminbi sulla base di un paniere di 13 valute piuttosto che unicamente sul biglietto verde, mandando nel pallone gli economisti).
Rievocando il tracollo delle borse dell’agosto 2015 e le oscillazioni registrate dallo yuan nell’ultimo anno, l’istituto diretto da Christine Lagarde auspica una piena liberalizzazione del tasso di cambio entro il 2018, salvo concedere a Pechino la possibilità di intervenire per prevenire un’eccessiva volatilità nel breve periodo. Quindi, apertura del conto capitale sì ma gradualmente, ché se la crescita economica del Dragone è stata stabile negli ultimi tre decenni (nonostante la crisi asiatica del 1997-98) lo si deve non solo alla solidità dei suoi fondamentali, ma anche alla riuscita gestione da parte del governo dei flussi di capitale oltrefrontiera.
Secondo Alfred Schipke, rappresentante del Fmi in Cina, una transizione «irregolare o incompleta» oltre la Muraglia rischierebbe di esacerbare gli effetti negativi a livello mondiale, soprattutto nei mercati emergenti. Oltre alle questioni valutarie, il rapporto aggiunge ai nodi gordiani la ristrutturazione delle imprese statali, la gestione dei crediti deteriorati, lo shadow banking e l’impennata dei prezzi immobiliari nelle città medio-grandi.
Mentre l’istituto si dice relativamente «ottimista» sul breve periodo – definendo la possibilità di un hard landing «improbabile» grazie alle adeguate riserve in valuta estera – la crescita del debito getta tinte fosche sul futuro. Stando a recenti dati della Bank for International Settlements, nei primi tre mesi dell’anno la distanza tra il credito della Cina e il suo Pil – misura che analizza l’ammontare del debito rispetto alla crescita annuale di un’economia – ha raggiunto il 30,1%, mentre il debito corporate (quello delle imprese) si aggirerebbe intorno al 145 % del Pil. Tanto che secondo Nomura, dall’inizio della crisi globale (2008) a oggi le aziende cinesi hanno più che addoppiato la percentuale del reddito utilizzato per la ristrutturazione del debito portandola al 20 per cento, il valore più alto al mondo. Numeri che Schipke definisce ancora sotto controllo ma che richiedono una valutazione qualitativa in modo da differenziare le passività «buone» da quelle «cattive».
Sulla mancata implementazione del deleveraging (riduzione del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie) si è espresso anche Huang Yiping, adviser della banca centrale che sul China Daily parla di high leverage trap, ovvero agli ostacoli che gli aggiustamenti sul breve periodo provocano alla risoluzione di problemi di più lungo respiro. Proprio in questi giorni, in occasione di un forum presso la Peking University, l’economista Huang Yiping ha lamentato l’inefficacia delle misure finora messe in campo, evidenziando l’estrema facilità con la quale le aziende di Stato hanno accesso agevolato al credito bancario, pur non essendo in grado di ripianare il debito contratto. Un parere pesante come il piombo fuso se a pronunciarlo è il padre del termine «Likonomics», la ricetta economica – a base di riforme strutturali, consumi interni, deleveraging e stop agli stimoli – con cui il premier Li Keqiang punterebbe a risanare l’economia cinese. Il condizionale è d’obbligo considerando l’intramontabile appeal del vecchio modello trainato dagli investimenti, che negli ultimi mesi sembrerebbe aver indispettito perfino il presidente Xi Jinping.
Analizzando i dati rilasciati martedì dall’Ufficio Nazionale di Statistica, la società di consulenza China Beige Book International mette in evidenza la sostanziale dipendenza della crescita dai vecchi catalizzatori, profitti industriali (ai massimi da tre anni) e real estate (che però non è omogeneo in tutto il paese), mentre i servizi rallentano e le vendite al dettaglio perdono fette di mercato a vantaggio dell’e-commerce.
Proprio la ristrutturazione del paradigma di crescita cinese viene citata dal Fmi tra i principali fattori di «contagio» oltreconfine. Una Cina consumption-led, secondo l’istituto con sede a Washington, avrà inevitabili ripercussioni sui partner commerciali, specie quelli che basano la propria economia sull’export di materie prime, di cui per trentanni l’economia investment-driven dell’ex Celeste Impero è stata ghiotta. Si consiglia quindi «l’utilizzo di ammortizzatori dove possibile, ma anche di piani di assestamento».
Una minore domanda cinese colpirà i paesi esportatori di materiali grezzi (come Australia e Brasile) e i fornitori asiatici di prodotti semi-finiti, mentre le nazioni dell’area euro – esportatrici di beni d’investimento (impianti, macchinari e attrezzature) – risentiranno il colpo di coda molto più di quei paesi votati all’export di beni di consumo. Chi ne uscirà vincitore – predice il rapporto – saranno gli importatori di commodity come gli Stati uniti, che gioveranno del calo dei prezzi guidato dalla contrazione della domanda cinese. E poi naturalmente tutti quei paesi del Sudest asiatico che, ricchi di manodopera a basso costo, stanno progressivamente strappando alla Cina il titolo di «fabbrica del mondo».
In un ultimo cenno agli effetti deleteri delle politiche protezionistiche, il Fondo evidenzia infine il potenziale positivo dei fenomeni migratori. Partendo da un’analisi della Cina – dove un incremento dell’1% dei lavoratori migranti può portare a una crescita del Pil del 2% – gli economisti dell’Fmi rintracciano un «legame positivo» fra performance economica e migranti, soprattutto per i paesi soggetti a un maggior invecchiamento della popolazione, che così «possono rafforzare il mercato del lavoro».