Da Seul a Tokyo, da Manila a Taipei: caos nell’Asia pro Usa

In Economia, Politica e Società, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Corea del sud, Giappone, Filippine e Taiwan. Tutti gli alleati o partner degli Stati uniti in Asia orientale sono alle prese con crisi politiche interne. Ognuna diversa, ma col diffuso rischio di tensioni sociali

Un presidente in attesa della sentenza che potrebbe definitivamente destituirlo, coi giudici barricati dietro filo spinato per paura di una versione asiatica dell’assalto a Capitol Hill. Un primo ministro accusato di ripetere le opache pratiche di una classe politica che aveva promesso di riformare, rischiando ora la rimozione. Un ex presidente arrestato e mandato all’Aia per essere giudicato per crimini contro l’umanità, mentre in patria la spaccatura tra le due famiglie politicamente più potenti del paese diventa una voragine. E un leader che chiede il ritorno dei tribunali militari per combattere infiltrazioni e spionaggio, rischiando però di alimentare un clima da caccia alle streghe.

La fotografia dei quattro alleati o partner degli Stati uniti in Asia orientale è impietosa. Quasi due mesi dopo il ritorno di Donald Trump, tutta l’architettura di sicurezza rinvigorita negli scorsi anni da Joe Biden è messa parzialmente in discussione. Non solo per l’imprevedibilità e l’isolazionismo della Casa bianca, ma anche per i seri problemi interni di una regione in cui emergono tutti insieme problemi irrisolti e si riaprono ferite che si credevano rimarginate, in una imprevedibile serie di crisi simultanee.

Le tensioni si trascinano da mesi in Corea del sud, dopo l’imposizione della legge marziale da parte di Yoon Suk-yeol. La scorsa settimana il presidente conservatore è stato rilasciato dal carcere dopo quasi due mesi e ora si attende la sentenza della corte costituzionale, chiamata a rendere definitiva la sua destituzione oppure a revocarla. Già da settimane, si susseguono manifestazioni di massa sia a favore sia contro l’impeachment di Yoon, i cui sostenitori si sono progressivamente radicalizzati. Gruppi organizzati di estrema destra hanno aggredito un gruppo di ragazze che manifestava contro l’anti femminista Yoon in un campus universitario. Oggi previsti raduni di massa, guidati ancora una volta dal pastore estremista di destra Jeon Kwang-hoon, che da giorni incita alla violenza: “Se i giudici non revocassero l’impeachment, attiveremo il diritto del popolo alla resistenza e li spazzeremo via con la spada”, ha urlato durante un comizio fuori dalla residenza di Yoon. La corte costituzionale ha rafforzato la sicurezza con filo spinato e pattuglie della polizia, anche all’interno del tribunale. Ma a Seul si temono scontri, sia a cavallo della sentenza in arrivo nei prossimi giorni sia durante l’eventuale campagna elettorale per le presidenziali. Il capo dell’opposizione progressista, Lee Jae-myung, ha chiesto protezione dopo aver ricevuto svariate minacce di morte. E già nel 2024 era stato accoltellato durante un comizio da un sostenitore di Yoon che aveva poi ammesso di voler evitare che Lee potesse in futuro diventare presidente.

In bilico anche il destino di Shigeru Ishiba, diventato premier del Giappone grazie alla sua fama di incorruttibile e anti establishment, dopo che il governo di Fumio Kishida era crollato a causa di uno scandalo sui finanziamenti. Ebbene, Ishiba è ora accusato di aver elargito voucher regalo da circa 670 euro ciascuno a 15 deputati, proprio alla vigilia di un cruciale voto parlamentare sulla legge di bilancio. L’opposizione chiede le sue dimissioni e il rischio di una crisi è concreto, visto che Ishiba guida un già traballante governo di minoranza. Si scalda già Sanae Takaichi, fedelissima dell’ex premier Shinzo Abe e nazionalista radicale.

Nelle Filippine, mentre Rodrigo Duterte veniva sottoposto alla prima udienza alla corte penale internazionale dell’Aia per la sua sanguinosa guerra alla droga, si è diffusa la voce che l’ex presidente abbia cercato asilo politico in Cina prima dell’arresto. Richiesta non accolta da Pechino, a cui probabilmente non dispiacciono le tensioni interne tra il clan della vicepresidente Sara Duterte e quello del presidente Ferdinand Marcos Jr., che ha dato una profonda svolta filoamericana.

Grande tensione anche a Taiwan, dove il presidente Lai Ching-te ha annunciato un piano in 17 punti per rispondere ai “tentativi di infiltrazione” della Cina continentale. Dopo recenti e ripetuti casi di spionaggio all’interno dell’esercito, Lai ha chiesto il ritorno dei tribunali militari e una serie di altre misure che mettono nel mirino gli influencer filo Pechino. L’opposizione protesta e parla di “venti di legge marziale”, mentre sui social cinesi circolano le prime immagini delle nuove navi con chiatte, che potrebbero giocare un ruolo decisivo in un’ipotetica invasione dell’isola.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]