Lo sfruttamento intensivo delle miniere sta cancellando l’antica cultura nomade, producendo nuovi ricchi e molte contraddizioni. La leva della trasformazione è l’enorme giacimento di Oyu Tolgoi, che riparte dopo un contenzioso lungo due anni. Viaggio nella difficile transizione mongola, dove il sesso forte sono le donne. “Gli ultimi guerrieri Naiman sono asserragliati dietro le rocce, sul pendio della montagna. O forse sono Merkit, non ricordo. Rimasti in qualche decina, si preparano a una disperata difesa contro i mongoli, che li hanno già sterminati a migliaia. A questo punto, Genghis arriva ai piedi del monte e ordina che i nemici siano risparmiati. ‘Avete dato prova di coraggio e lealtà. Vi risparmio, siete liberi di andare. Vi auguro di fare migliaia di figli’. Capisci? Il Khan, che di solito non va tanto per il sottile, sa che quei guerrieri lottano per i propri valori, per un’identità. Li considera degni e, forse, una risorsa per il futuro. È l’opposto di quello che facciamo oggi. Chi difende i valori non ha più senso di esistere, a meno che non scenda a compromessi”.
Ulan Bator. David Bellatalla è un antropologo italiano che vive da anni in Mongolia, “terra di miracoli e misteri”, come la definisce. In un giardinetto della capitale, mentre la nuova generazione di ex pastori delle steppe sfreccia su pattini Rollerblades a pochi centimetri dai piedi altrui, racconta cosa ci perdiamo – in quanto umanità – con la fine della civiltà nomade. “Perdiamo nostro fratello gemello. È la storia che racconta anche la Bibbia. Dio accetta i regali del pastore Abele e rifiuta quelli dell’agricoltore Caino. Allora quello tira una bastonata in testa al fratello e l’ammazza. Così stiamo facendo noi ora, con i nomadi”.
L’economia delle steppe, così integrata nei ritmi naturali, sta tramontando a vantaggio di quel capitalismo estrattivo che vede nella terra di Genghis solo una grande superficie da perforare. Momento simbolico, lo scorso maggio, quando la multinazionale mineraria Rio Tinto e il governo mongolo hanno sbloccato un contenzioso che si trascinava da due anni per l’ampliamento della miniera di Oyu Tolgoi, nel deserto del Gobi: un giacimento di rame e oro che, a regime, dovrebbe produrre circa il trenta per cento del Pil del Paese. Turquoise Hill, la società che gestisce il progetto da 5 miliardi di dollari, è posseduta per il 66 per cento da Rio Tinto e per il rimanente 34 dal governo di Ulan Bator. I due partner sono entrati in conflitto nel 2013 sulla spartizione di costi e ricavi, quando era operativa solo la sezione a cielo aperto della miniera. L’ampliamento sotterraneo garantirà ben l’ottanta per cento dei ricavi – si dice – e la situazione di stallo, imputata dai media internazionali all’inaffidabilità delle autorità mongole, ha generato una fuga degli investimenti stranieri da tutto il Paese. Fine della crescita a doppia cifra.
La Mongolia ha così sbattuto la faccia contro la propria natura di monocoltura mineraria, appesa al filo della domanda straniera di materie prime. Due anni dopo, ha dovuto piegarsi. Il Primo ministro Saikhanbileg è andato perfino in tv per annunciare alla nazione il rilancio del settore e la risoluzione del contenzioso.
Il luogo simbolo di una crescita che dipende dai chiari di luna del settore minerario è il quartiere di Zaisan, a sud della capitale. Cinque anni fa, era un pendio stepposo su cui svettava una collina meta di pellegrinaggi collettivi. In cima, c’è infatti il memoriale all’eroe sovietico, inno all’amicizia russo-mongola e alle vittorie contro giapponesi e nazisti. Nel 2010, un gruppo di giovani donne ci saliva ridendo. Erano Tsaatan, una minoranza etnica di trecento allevatori di renne che vivono nell’Hovsgol Aimag, la provincia più settentrionale della Mongolia. Le ragazze rappresentavano l’orgoglio del proprio popolo, scelte da un programma governativo per studiare all’università di Ulan Bator. Dormivano tutte nella stessa camerata con i buchi nelle finestre, ma erano orgogliose di seguire corsi utili alla propria comunità, del tutto funzionali all’economia della renna: veterinaria, scienze naturali. Ed erano felici di fare quella “scampagnata” a Zaisan.
Oggi, gli Tsaatan si sono fatti quasi interamente inghiottire dal turismo etnico, diverse renne hanno abbandonato il muschio della taiga per essere spedite a valle, a farsi fotografare sulle rive del lago Khovsgol; e Zaisan è un quartiere cementificato da decine di progetti immobiliari che crescono caoticamente senza un piano regolatore, semplicemente in base alla posizione del terreno che il palazzinaro di turno riesce ad aggiudicarsi.
“Quel condominio di lusso era stato concepito affinché offrisse una veduta panoramica di Ulan Bator e del fiume Tuul”, spiega l’architetto italiano Luciano Cosmo. “Ora gli hanno costruito di fronte delle case più alte, quindi i proprietari hanno pagato 4mila dollari al metro quadro per fissare una parete di cemento”.
Prezzi come a Roma, Milano, Pechino, su un pendio connesso al centro città da una strada asfaltata a metà, che zigzaga tra i compound recintati, con guardia privata all’ingresso, in stile Usa o cinese. Capita che anche le maestranze siano spesso cinesi, perché sembra che lavorino meglio dei locali. Talvolta, alla sera, quando i muratori hanno alzato un po’ il gomito, mongoli, cinesi e coreani se le danno di santa ragione, nel nome di antiche rivalità rinnovate dalla moderna competizione nel lavoro dequalificato.
Cosmo ha progettato il residence Jardin, un gruppo di palazzine recintate al cui interno ci sono appartamenti di lusso, tra i 140 e i 380 metri quadri, arredati in diversi stili: mediterraneo, giapponese, “trend”, New York, neoclassico. C’è anche l’etnico-fusion, ma scordatevi una yurta trasformata in appartamento, l’unica concessione è qualche color legno. Nella torre da dodici piani che sovrasta gli altri palazzi ecco la Spa, la piscina e la palestra.
In cima ci sono i 700 metri quadri di penthouse del padrone di tutto ciò, il signor Batsaikhan Purev, che nel 1993 ha fondato il gruppo Shunkhlai: lavorazione e importazione di prodotti petroliferi per poi allargarsi al minerario, all’immobiliare, alla grande distribuzione, ai servizi finanziari, ai media (possiede una televisione), alle telecomunicazioni. È l’esempio vivente di come le risorse del sottosuolo trainino il resto. Una grande stanza del suo appartamento, ancora in costruzione, è destinata alla meditazione buddhista. Guarda verso sud, verso le colline, dove in un fazzoletto di prato rimasto sgombro c’è una yurta isolata. Come in Cina, il mattone simboleggia il nuovo benessere. Ma a differenza del gigante a sud del confine, qui non sembra esserci una bolla che si autoalimenta, perché non c’è abbastanza gente che butta i suoi risparmi nell’investimento immobiliare a fini speculativi: “I prezzi sono scesi a 3.600 dollari al metro quadro, perché la crisi ha ridotto la domanda”, spiega Luciano Cosmo.
Ora, il riavvio di Oyu Tolgoi farà nascere nuovo ceto medio proteso verso casa e auto. L’economia potrà ripartire, è questa la speranza di tutti. Ma a che prezzo?
“Le miniere creano solo problemi. Non possiamo migliorarle, perché non abbiamo le conoscenze, una base legale e neppure gli esperti. Bisogna solo fermarle. Così perderemmo un terzo del gettito fiscale, ma questo non è un problema. Abbiamo 60 milioni di capi di bestiame, possiamo venderli alla Cina. Possiamo produrre energia elettrica e artigianato per la Russia e per la Cina”.
Boum-Yalagch Olzod è il presidente del Partito verde d’opposizione; ce ne è anche uno che sta al governo. Classe 1960 e un passato da studente in Germania Est, da contrabbandiere di auto dopo il crollo del muro, da dottorando in ipnosi e da manager del turismo, è sempre stato contro lo sviluppo basato sulle miniere. Nei primi anni Duemila, girava in bicicletta per Chingeltei – la grande favela di yurte che di fatto è la periferia nord di Ulan Bator – tutto vestito di verde e con un megafono attaccato a un pannello solare. Faceva campagna elettorale.
Oggi ha un nuovo ufficio, dietro al teatro nazionale di Ulan Bator, che condivide con suo figlio: Boum fa il presidente dei Verdi all’opposizione, il ragazzo gestisce l’agenzia viaggi.
“Le miniere non sono una soluzione perché arricchiscono solo poche persone – spiega Boum – che poi cercano di proteggere la propria ricchezza assumendo guardie del corpo. Così, in Mongolia circolano sempre più armi e ricchi che non possono coesistere, questo è il problema, perché sono in concorrenza tra loro. Le miniere senza controllo producono ricchi senza controllo che a loro volta producono problemi senza controllo. Potrebbe scoppiare la guerra, come in Ucraina”.
La visione apocalittica di Boum – che smise il contrabbando d’auto quando si fece dieci giorni di coma dopo essere stato massacrato di botte da mafiosi russi – ha una giustificazione economica nella cosiddetta “sindrome olandese”, secondo cui un’economia basata solo sulle miniere non traina gli altri settori, ma li danneggia, perché l’afflusso di denaro straniero e l’aumento dei prezzi rendono non competitivi il manifatturiero e l’agricoltura: bloccano l’innovazione.
Un salto del vuoto, dunque, pagato tra l’altro con la fine di una civiltà.
Nel 2010, la miniera d’oro di Uyanga, 450 chilometri a sud-ovest di Ulan Bator, era stata già abbandonata dalla Erel, l’ennesima compagnia mineraria che poi si ramifica nelle costruzioni, nelle infrastrutture, nei servizi finanziari e nel manifatturiero. L’enorme buco nella terra era però stato immediatamente riempito da una folla brulicante: li chiamavano Ninja, perché portavano sulla schiena dei grandi catini di plastica verdi e ricordavano le omonime tartarughe. Erano cercatori d’oro abusivi, che raschiavano il terreno raggranellando gli avanzi della grande compagnia; erano ex nomadi che avevano perso il bestiame nello zud, il gelo invernale. Oppure l’avevano semplicemente venduto, per lanciarsi nella corsa all’oro. A Uyanga, si era già costituita una società gerarchica, dove i più ricchi, che avevano rilevato i macchinari della Erel, coesistevano con imprese familiari i cui membri si davano il turno in fondo a pozzi larghi un metro e profondi quaranta, trasportati su e giù da una carrucola artigianale. Infine loro, i Ninja veri e propri, accucciati a setacciare le pozze di fianco agli scavi, alla ricerca di qualche pepita. Se per caso la trovavano, la voce si spargeva e una ruspa arrivava da poche decine di metri di distanza per fare man bassa. Loro venivano cacciati un po’ più in là. La prateria era diventata una bolgia di fango.
Lì, a Uyanga, la fine del nomadismo e l’inizio della nuova Mongolia si sovrapponevano.
“Per mantenere vivo il nomadismo, ci vorrebbe l’intervento dei governi – dice l’antropologo Bellatalla – ma non bisogna creare uno zoo o una riserva indiana, si devono recuperare gli elementi vivi: per esempio favorire lo scambio di prodotti artigianali attraverso micromercati. Il rischio sta però nel fatto che quando sventoli di fronte al nomade qualcosa di luccicante, cambia tutto. Stiamo minando valori universali”.
Eppure, in questa transizione difficile, non tutti sono caduti da cavallo.
“Io non ho sogni; ho obiettivi”. Le donne superano il cinquanta per cento della popolazione e i numeri salgono in città. Soprattutto quelle del ceto medio urbano – cioè di Ulan Bator – sembrano la componente più dinamica della società. Bolgor Urtnasan è sulla cinquantina, quattro figli e un marito a capo di un’impresa di sondaggi geomagnetici per rintracciare i giacimenti sotterranei. “I sogni svaniscono, gli obiettivi no”, dice la donna. Vive proprio sulla collina di Zaisan e per fare due chiacchiere interrompe per qualche minuto il lavoro nel ristorante che ha avviato proprio grazie alle risorse messe a disposizione dal marito, giusto nel centro di Ulan Bator. Bolgor rappresenta la nascente borghesia che dagli investimenti stranieri nelle miniere trae beneficio per avviare nuove attività.
“La Mongolia non ha industrie – spiega – così importiamo tutto dall’estero. Anche il novanta per cento di quello che usiamo in cucina è importato. Se il settore minerario funziona, altre attività possono nascere. Invece, negli ultimi due anni, la fuga degli stranieri e degli investimenti ha prodotto una crisi, la nostra moneta ha perso tantissimo valore e, dato che dipendiamo dalle importazioni, abbiamo dovuto pagare tutto molto di più. Questo è il motivo per cui sia ristoranti, sia servizi e piccole industrie hanno dovuto chiudere”.
Mentre racconta, dà istruzioni al personale su come guarnire dei mini hamburger che saranno la nuova offerta del suo ristorante. “Andrà meglio, è una certezza. Ovunque nel mondo c’è una fase in cui bisogna lottare, poi è la gente stessa che può cambiare le cose”. Lei ha preso il proprio destino in mano, quando nel 1993 è andata in Germania.
Bolgor ha un prima e un dopo, come altre donne mongole. Anni duri subito dopo la fine del socialismo nei primi anni Novanta, quindi il distacco dalla loro terra e infine il ritorno, cariche di nuova energia e voglia di vivere.
“Quando partii, la Mongolia stava collassando. Al ritorno, ho lavorato in un’agenzia di consulenza che si occupava di aiutare il business straniero a insediarsi qui; poi per Shangri La Real Estate, che ha costruito questo palazzo. Grazie ai contatti, sono stata poi io ad aprirci un ristorante”. La sua amica Oyun Rentsen, di qualche anno più giovane, ha un’agenzia di consulenza per start-up mongole di ogni genere. Lei è andata a studiare negli Usa, poi è tornata perché crede che il futuro sarà migliore. “Anche dieci anni fa c’era gente che aveva dei soldi, ma non sapevano che farne, come investirli”. Oyun va in giro a piedi per Ulan Bator, sugli autobus, non se ne fa niente di un Suv da nuovo ricco. “Così conosco la gente. Sono loro il mio mercato. E poi osservo come cambia la città”, la capitale di una Mongolia sempre più urbana. Su circa tre milioni di mongoli, si dice che quasi due vivano ormai in quella che fino a dieci anni fa sembrava un vecchio avamposto sovietico attraversato da una strada.
Bolgor ha obiettivi, non sogni. “Vorrei tornare alla natura per godermi la vita”. Vuole prendere un pezzo di terra in mezzo alla steppa e aprirci una specie di agriturismo, mentre qualcuno al posto suo fa andare avanti il ristorante. C’è il desiderio di un ritorno alle origini simile alla riscoperta della vita bucolica che, complice la crisi, ha mietuto vittime anche in Italia. Solo che qui è avvenuto tutto in una generazione: dal nomadismo, alla metropoli per poi rimbalzare nelle steppe in forma nuova.
E chissà se laggiù il nuovo mongolo sedentario ritroverà il proprio fratello nomade.