I grandi conglomerati dominano l’economia sudcoreana. Da sole, Samsung e Hyundai contribuiscono al 35 per cento del Pil nazionale. Ogni scossone dei due giganti o delle altre grandi chaebol è quindi un rischio per il sistema. Paragonata al mondo marino l’economia sudcoreana è fatta da poche balene e tanti pesci piccoli. Così Aidan Foster-Carter, analista della Leeds University, descriveva il sistema della quarta economia dell’Asia alla vigilia delle presidenziali del 2011, quando uno dei temi della campagna elettorale fu il ruolo delle chaebol, i grandi conglomerati familiari, che dagli anni Settanta del secolo scorso hanno trainato la crescita del Paese, bersaglio prima de voto tanto dei conservatori quanto del centro-sinistra.
I dati pubblicati dalla società Ceo Score sono una conferma per quanti definiscono la Corea del Sud la Repubblica dei chaebol. Le vendite di Samsung e Hyundai, da sole, contribuiscono al 35 per cento del prodotto interno lordo nazionale. Il valore di mercato aggregato delle società affiliate ai due gruppi è pari al 37 per cento di tutte le società quotate nelle borse locali, KOSPI e KOSDAQ. Nel 2012, l’utile operativo netto dei primi 10 gruppi sudcoreani è stato pari a 57,9 miliardi di dollari, pari al 43 per cento del totale nazionale. Le prime due della classe, secondo le cifre di Chaebol.com, sono proprio Samsung e Hyundai, che rappresentano assieme il 30,4 per cento, pari a 40 miliardi di dollari.
I due conglomerati sono i pilastri dell’economia sudcoreana, diventati marchi globali. Tuttavia, per dirla come il Dong-a Ilbo, “l’eccessiva dipendenza da un numero limitato di società rappresenta un rischio”. Se una delle due dovesse subire una battuta d’arresto, questo avrebbe ripercussioni sull’intero Paese. Il quotidiano fa due esempi. La Samsung Electronics, capace di competere con Apple, rischia di soffrire la concorrenza di Xiaomi, società cinese di smartphone a basso costo. In questo senso è da leggere anche il previsto rallentamento nel quarto trimestre del 2013. Hyundai potrebbe invece soffrire la concorrenza giapponese sostenuta dalla politica monetaria del primo ministro Shinzo Abe.
Secondo Park Ju-gun, direttore di Ceo Score citato dal Korea Times, “per avere una solida struttura economica c’è bisogno di un portafoglio bilanciato”. Il sistema industriale coreano, ha aggiunto, “si concentra eccessivamente sulle automobili e sull’alta tecnologia”. Come sottolinea il portale InfoMercatiEsteri della Farnesina, “la struttura produttiva nazionale è fortemente orientata all’export. Dal 2011, la Corea è entrata nel ristretto gruppo di economie con un volume di scambi commerciali superiori ai mille miliardi di dollari annui (“Trillion Club”). Il 2013 ha fatto registrare un aumento del 2,2 per cento dell’export (559,8 miliardi di dollari, record storico assoluto)”. In questo contesto, “funzionale a una crescita attraverso l’export è la conclusione di numerosi accordi di libero scambio”.
In un documento sugli investimenti pubblicato dall’Ocse a febbraio di quest’anno si ricorda come almeno tra i 1987 e il 1997 il sistema sudcoreano poteva essere definito capitalismo dei chaebol. I conglomerati erano, e sono, troppo grandi per fallire, ma anche troppo grandi per essere sotto il controllo del governo, sebbene da metà degli anni Novanta non siamo mancati i tentativi di limitarle. Senza successo, almeno prima della crisi asiatica che rese possibile qualche riforma.
Il successo dei conglomerati, votati in particolare al manifatturiero e alle esportazioni, ha tuttavia come contrappeso le difficoltà a sviluppare imprenditorialità dal basso e la nascita di start up innovative, scrivono Alberto Qaudrio Curzio e Valeria Miceli sulla Domenica del Sole24Ore nel recensire Il miracolo coreano di Andrea Goldstein. Sono le chaebol a offrire migliori salari e attrarre gli studenti migliori.
Un episodio di tre anni fa, venuto allo scoperto con un video pubblicato lo scorso maggio, è preso ad esempio della sproporzione di forze tra i grandi gruppi e le piccole e medie aziende. Il video riprende un agente della Namyang Dairy Product, uno dei colossi dell’industria casearia, insultare e minacciare un distributore restio a prendere più prodotti del previsto. La vicenda dà l’idea della disparità tra le grandi chaebol che basano la propria forza sull’export, ma che negli ultimi anni hanno cercato anche altre aree di investimento, e i piccoli che devono appoggiarsi principalmente al mercato dei consumi interno.
Le chaebol devono puntare sull’estero, ha spiegato Shin Min-yong, ricercatore al LG Economic Research Institute, intervenuto a una tavola rotonda organizzata all’inizio dell’anno dal Korea Times. Secondo l’economista, non basta e non è un bene né per le società né per l’economia coreana nel suo complesso che i grandi nomi si accontentino di essere dominanti nel mercato interno. “Per i piccoli è difficile competere”, gli fa eco Park Sung-wook, direttore della divisione macroeconomica e per la finanza internazionale del Korea Institute of Finance, secondo cui le condizioni attuali del sistema coreano impediscono la crescita dei piccoli. Ciò che occorre fare, concordavano i relatori, è rimuovere gli ostacoli posti dalle chaebol e dare a tutti le stesse opportunità. Occorre un sistema in cui tutti possano aspirare a diventare come la Samsung.
[Scritto per Linkiesta. Foto credit: businessweek.com]