Contrariamente a quanto si possa credere, la Cina non è il luogo dove un gran numero di aziende occidentali sognano di trovarsi oggi. Mai facile, sempre faticosa, spesso deludente, l’unica certezza è che l’avventura cinese riserva sorprese, a volte sgradite. Se ci concentriamo solo sul comparto moda occidentale in generale (lusso e non), la sensazione, buttando l’occhio nei mega mall di Pechino e Shanghai è però che alla paura e alla prudenza abbiano prevalso altre logiche.“Mi si nota più se vado e resto in disparte o se non vado ?“ sembra il ragionamento sotteso a molte delle avventure imprenditoriali straniere nel paese.
Dai nomi noti del lusso occidentale, sbarcati a oriente da decenni e con strategie ben costruite e solide ai grandi marchi del retail (non ultimo il londinese Top Shop che occhieggia la Cina), un piede nel paese lo mettono proprio tutti, traghettati dalla crisi dei consumi che paralizza Europa e Stati Uniti. I risultati? Dipende. Ottimi e al di là di ogni previsione per alcuni, un po’ meno per i molti altri i cui ingenti investimenti e la presenza capillare sul territorio cinese, vengono spesso ripagati con punti vendita deserti. E hai voglia a sostenere che si tratta di rischi calcolati, che tutto è funzionale a presidiare il territorio e a educare la clientela cinese perchè si sviluppi una brand awareness che porti poi a una brand consciousness, come amano ripetere gli esperti di marketing con linguaggio psicoanalitico.
Detto questo, la risposta alla domanda iniziale appare abbastanza evidente. Se c’è un luogo dove in molti desidererebbero sostare, anche solo per poco, quello è la mente dei milioni di consumatori cinesi o aspiranti tali. A rendere il soggiorno più che auspicabile sono le proiezioni che vogliono la Cina superare per vendite al dettaglio gli Stati Uniti raggiungendo entro il 2016 i 5mila miliardi di dollari (fonte: Conferenza Consultiva del Popolo Cinese del settembre scorso), complice il nuovo piano quinquennale 2011-2016, in fase di definizione, ma già chiaro nelle sue linee essenziali. La parola d’ordine consiste oggi nell’imporre una strenua virata all’economia, riconvertirsi da un sistema trainato dalle esportazioni a economia di consumo, il tutto grazie ai milioni di cinesi che entreranno nella società dei consumi o che già lo hanno fatto.
Chi sono, cosa desiderano i consumatori cinesi, quanti soldi sono disposti a spendere, con quale logica lo fanno, quali le loro priorità? Queste sono solo alcune delle domande che popolano le notti degli esperti del settore. Una risposta unica è impossibile darla. Il mercato cinese è estremamente segmentato e la sua complessità, aumenta all’aumentare dei consumatori. A pesare fortemente oltre all’ovvio divario tra redditi e le differenze generazionali tra consumatori anche coordinate geografiche che rivelano alterità significative tra parti del paese e persino all’interno delle stesse province. “La Cina è caratterizzata essenzialmente da una pluralità di isole di consumo, ognuna con il propri livelli di sviluppo, reddito medio, industrie, clima, topografia e dialetti” racconta Matthew Crabbe partner fondatore, con il prolifico Paul French, di Access Asia, un’agenzia di consulenza sulla Cina. Per non parlare poi della velocità alla quale le dinamiche cambiano e con loro le abitudini di consumo.
Milioni di big spenders mossi dalle logiche più elementari del consumo vistoso si trovano gomito a gomito con formiche operose, e per rendere le cose ancora più difficili capita che contrastanti comportamenti di consumo convivano nella stessa persona (ovvero, non è detto che chi si compra una BMW poi compri anche la marca di dentifricio più costosa, anzi). La Cina è infatti il paese che vanta il più alto tasso di risparmio al mondo, oltre il 30% del reddito disponibile finisce sotto il materasso; cosa non da poco se pensiamo che la percentuale nell’America post-crisi è ferma al 6%. Il credito rimane l’estrema risorsa e per il momento le cose non sembrano dare segno di cambiamenti significativi.
L’atteggiamento delle aziende occidentali davanti a tanta complessità, seppur variegato, sembra essere troppo spesso caratterizzato da un certo paternalismo e dalla tendenza a sottovalutare la complessità del quadro cinese, almeno in materia di consumi. "E’ necessario educare i consumatori cinesi" è una frase che riecheggia spesso nei discorsi di uomini di azienda occidentali che operano nel paese. Ora, cosa ci sia da educare rimane ancora da stabilire. Forse è vero il contrario.
Come commenta sempre Crabbe: "I consumatori cinesi hanno, per molti versi bypassato prodotti, servizi e tecnologie superflue, che i consumatori delle economie più avanzate hanno invece dovuto sperimentare”. Questo dota i cinesi di un vantaggio competitivo, rispetto ai loro omologhi occidentali. Forti di un sistema in cui la velocità di esecuzione è tutto, i consumatori cinesi sono più consapevoli delle potenzialità di nuovi prodotti e servizi e vanno dritti al punto.
Tornando alla moda, il campo del lusso è utile per osservare la molteplicità di strategie messe in atto dalle aziende per attirare clientela cinese. E se ne vedono delle belle. Dalle brand che fanno leva sul desiderio delle classi abbienti di dimostrare il proprio profilo sociale attraverso il consumo vistoso, puntando sull’elitismo che solo un’edizione limitata sembra dare, a quelle che si sono ormai convinte che per conquistare il paese è necessario diversificare l’offerta di prodotti adattandoli alla cinesità, a chi ancora si è buttato in avventure imprenditoriali davvero innovative.
C’è n’è per ogni gusto. Il tutto si traduce in una profusione di prodotti in edizioni limitate e modellate sul gusto cinese. Dalla borsa che la casa francese Chloé ha lanciato (rossa ovviamente) in 78 esemplari per festeggiare l’anniversario della sua presenza in Cina, a Dior che rende disponibile un telefono cellulare –Shanghai Blue – solo in alcuni negozi selezionati della città, fino a Cartier, che progetta una produzione limitata del tradizionale orologio Panthère incastonato di giada. E questo è solo per rimanere nel campo della moda, di esempi simili ce ne sarebbero a volontà.
Ma a parte le incursioni momentanee nel campo dell’estetica cinese, due grandi progetti sono andati oltre, in questi ultimi tempi. La maison Hermès ha voluto rischiare grosso dando vita a una nuova creatura. Shang Xia, che propone una linea per la casa e l’abbigliamento sia maschile sia femminile. Nelle parole dell’amministratore delegato della casa madre, Patrick Thomas, la nuova brand non rappresenta assolutamente una seconda linea bensì l’inglobarsi del gusto cinese in quello del celebre marchio francese. Il tutto con materiali, design e produzione locale “L’unico nostro obiettivo è sorprendere i nostri clienti” ha poi aggiunto lo stesso, e a conferma di ciò ci sarebbe l’apertura di punti vendita previsti non solo in suolo cinese, ma anche a Parigi. Insomma un bell’upgrading per il made in China. Levi’s ha, invece, con dENiZEN, lanciato una nuova brand di jeans e accessori specificamente pensata per il mercato asiatico e cinese in particolare. Da molti definiti suicidi, i progetti di Hermès e Levi’s stanno quantomeno imboccando una via innovativa e coraggiosa. Entrambe stanno rischiando grosso e proponendo un nuovo modo di connettersi con i consumatori cinesi. Come andrà, staremo a vederlo.
Nel frattempo c’è chi arriva in Cina e non passa certo inosservato. Dopo pochi mesi dal clamoroso mea culpa e relativo passo indietro dell’azienda sul cambio del celebre logo, Gap, sembra avere colpito ancora. L’apertura degli store in quel di Shanghai ha infatti visto la presentazione di una limited edition di jeans per la Cina intitolata “1969” con tanto di confezione rossa con la stella e a un prezzo propiziatorio di 888 rmb. Che si volesse celebrare l’anno di nascita del colosso americano pare chiaro, ma solo a pochi. Tra questi non certo i consumatori cinesi, che poco sanno della brand e per cui il richiamo leggero a quegli anni difficili per la Cina potrebbe non esattamente sembrare un’idea brillante. Clamoroso autogol o strategia ben pianificata? Il tempo ci darà ragione ma se è ormai comprovato che le nuove generazioni cinesi conservano scarsa memoria del passato, è altresì dimostrato che come consumatori sono molto meno ingenui di quanto si vada dicendo in Occidente, e la loro memoria è molto più lunga di quanto si immagini.
*Nicoletta Ferro è Senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei
[Pubblicato anche su AGICHINA24 il 9 dicembre 2010 © Riproduzione riservata]