“Non introducete precisi vincoli numerici su deficit e surplus commerciali e non manifestate pressioni sulla rivalutazione dello yuan (o di altre monete); noi eviteremo di criticare direttamente le politiche monetarie della Fed”: nessuno dei leader e dei negoziatori presenti al G20 che si è concluso a Seul da qualche ora si sognerebbe mai di sottoscrivere esplicitamente una frase del genere; eppure, dopo due giorni di vertice tra le venti economie più importanti del mondo, il risultato del summit potrebbe essere riassunto così. Il comunicato congiunto contiene formule molto generali, che sembrano scritte per non scontentare nessuno: il G20 assicura “un fermo impegno a cooperare per raggiungere gli obiettivi di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”, intende “rimanere vigile sugli eccessi di volatilità delle valute”, respinge “il ricorso alle svalutazioni competitive” e conclude, di fatto, affidando la vigilanza al Fondo Monetario Internazionale e al gruppo di lavoro sul framework l’incarico di sviluppare linee guida che andranno poi comunicate ai Governatori delle banche centrali e ai ministri delle Finanze, fissando una prima verifica entro i primi sei mesi del prossimo anno.
Ma quello di Seul si annunciava come il vertice G20 più turbolento da quando quest’organismo è arrivato alla ribalta della scena politica mondiale, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, e nessuna delle questioni che si agitavano alla vigilia sembra avere trovato una soluzione definitiva. Non l’ha trovata il problema delle ampie disparità nelle bilance dei pagamenti tra le varie nazioni: la proposta, fortemente voluta da Barack Obama, di fissare un tetto del 4% del PIL per gli squilibri di surplus e deficit correnti è rimasta lettera morta per l’opposizione di quelle economie che sono uscite più velocemente dalla crisi, Cina in testa. “Fissare artificialmente un obiettivo numerico non può che portarci indietro ai tempi delle economie pianificate”, aveva detto ironicamente il viceministro degli Esteri cinese Cui Tiankui; e anche se un anonimo alto funzionario USA ha dichiarato che “tutti riconoscono che sarà necessario arrivare a un accordo sui numeri”, nulla di concreto è stato stabilito.
Non ha trovato accordi effettivi neanche il tema delle svalutazioni competitive, che dalle tensioni tra Cina e USA si è poi diffuso su numerose altre economie. Da tempo, infatti, Washington criticava il tasso di cambio dello yuan, considerato troppo basso rispetto al valore reale della moneta cinese, e pertanto in grado di avvantaggiare slealmente Pechino negli scambi con l’estero, USA in primis. Negli ultimi mesi l’aggressività dell’export cinese ha innescato una reazione a catena che ha condotto Giappone, Corea del Sud, India, Thailandia, Brasile e Svizzera a intervenire sulla propria moneta per diminuirne il valore e avvantaggiarsi così nelle esportazioni a scapito dei concorrenti. Questo gioco del domino, che alcuni avevano definito una vera e propria guerra valutaria, è culminato con la decisione della Federal Reserve di lanciare un nuovo alleggerimento quantitativo da 600 miliardi di dollari; una mossa che – di fatto – equivale a stampare nuova moneta, iniettando nuova liquidità e abbassando il valore del dollaro per rinvigorire un’economia americana che stenta ancora a decollare.
Nell’incontro a due tra Barack Obama e Hu Jintao, il presidente cinese ha ribadito che una riforma del tasso di cambio dello yuan necessita di un “contesto internazionale stabile e adeguato”, e pertanto si potrà procedere “solo in maniera graduale”, resistendo così una volta di più alle pressioni americane. Ma Hu Jintao ha anche espresso le sue preoccupazioni per gli effetti del nuovo quantitative easing Made in USA, dato che un dollaro più debole non mancherà di dirottare verso le economie emergenti flussi di capitali speculativi capaci di aumentarne l’inflazione al di là dei livelli di guardia (oltre che diminuire il valore delle enormi riserve in dollari che il Dragone custodisce nei suoi forzieri); critiche alle quali il presidente americano ha risposto sostenendo che un’economia americana più forte significa maggiori benefici per tutte le economie del mondo.
L’unico solido accordo raggiunto – peraltro ampiamente previsto – riguarda allora la riforma della governance del Fondo Monetario Internazionale, che riconosce maggiori poteri di voto alle economie emergenti come Cina e India a scapito di alcune potenze europee, quali Francia, Germania e Gran Bretagna. E se qualcosa di netto emerge da Seul, forse, è proprio la solitudine europea: “L’euro non può essere l’unica moneta a fare le spese delle svalutazioni competitive” aveva dichiarato il Cancelliere tedesco Angela Merkela alla vigilia del summit. I cinque paesi europei presenti al summit hanno dovuto rassicurare le altre nazioni sui rischi della nuova crisi che sta investendo in queste ore l’Irlanda.
[Pubblicato su AGICHINA24 il 12 novembre 2010]