Dialoghi – Il cinema cinese può ancora aspirare al successo internazionale?

In Dialoghi: Confucio e China Files by Camilla Fatticcioni

Il cinema cinese si sta reinventando aspirando al successo internazionale. Negli ultimi anni la produzione cinematografica della Repubblica Popolare ha provato a reinventarsi e a stare al passo con i tempi, crescendo grazie anche a ingenti investimenti statali e a un’attenta pianificazione governativa. ” Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Qui per le altre puntate.

Di Camilla Fatticcioni

 

Il 2025 è probabilmente l’anno in cui il cinema cinese ha raggiunto un vero successo internazionale. L’anno del Serpente si è aperto con un incredibile successo al botteghino per il film d’animazione Ne Zha 2, sequel che racconta le avventure di un ragazzino ribelle dotato di straordinari poteri, tratto dalla mitologia cinese.

Dal 2010, l’industria ha assistito all’ascesa di film commerciali su larga scala, con investimenti significativi sia negli effetti speciali sia nella narrazione, in particolare per i film d’animazione. Ne Zha 2 ha incassato oltre 2 miliardi di dollari al botteghino mondiale, superando Inside Out 2 ed entrando nella top 40 dei film più visti di sempre al cinema.

Possiamo quindi dire che il cinema cinese aspiri a diventare la nuova Hollywood? Nel 2020 si era accesa la speranza che la Cina potesse superare l’industria cinematografica statunitense, quando, per la prima volta, gli incassi al botteghino cinese superarono quelli americani. Ma era anche l’anno della pandemia. Oggi ci chiediamo se questo sia ancora possibile.

Per Pechino, il cinema è principalmente uno strumento di narrazione volto a rafforzare il sentimento di orgoglio nazionale. Lo conferma Ne Zha 2, uscito a febbraio durante le festività del Capodanno Lunare, senza altri blockbuster a fargli concorrenza al botteghino. La sproporzione degli incassi rispetto a quella di altri film cinesi è enorme.

La crescita dell’industria cinematografica cinese non è stata un caso né un processo spontaneo, ma il risultato di una strategia calibrata nel lungo periodo. Per anni le autorità hanno mantenuto un rigido controllo sulle importazioni: solo una manciata di film stranieri riusciva a superare la censura, mentre la maggior parte restava bloccata ai confini. Poi, all’inizio degli anni Duemila, la linea cambiò. Il governo decise di allentare le maglie e di far entrare nel mercato interno un numero maggiore di titoli internazionali — in particolare i grandi blockbuster americani — con un obiettivo economico più che culturale: spingere il pubblico verso le sale e sostenere l’espansione dell’infrastruttura cinematografica nazionale.

L’esperimento funzionò. L’arrivo di Hollywood alimentò l’interesse del pubblico e innescò una vera e propria corsa alla costruzione di cinema in tutto il Paese. Nel giro di dieci anni, la rete di sale raddoppiò fino a superare gli 80.000 schermi, il numero più alto al mondo. Il cinema, in Cina, divenne un fenomeno di massa.

Parallelamente, gli incassi iniziarono a crescere e il mercato interno assunse un peso sempre maggiore anche per hollywood che iniziò a produrre sempre più film che si adattasse anche al gusto del pubblico cinese. Dal 2010 la Cina cominciò a studiare da vicino il modello hollywoodiano, collaborando con registi e produttori statunitensi per apprendere tecniche, linguaggi e strategie narrative capaci di attrarre grandi platee. In poco tempo, le case di produzione cinesi impararono a realizzare blockbuster propri, adattando la formula americana alle esigenze del pubblico nazionale.

Raggiunta una certa autonomia, Pechino tornò però a chiudere il rubinetto. Le quote per i film stranieri furono nuovamente ridotte, lasciando campo libero alle produzioni domestiche. I film locali si trovarono senza concorrenza diretta e poterono consolidare il proprio dominio, alimentando una crescita che oggi è tanto economica quanto identitaria.

Oltre ai blockbuster, il cinema cinese negli anni si è distinto per alcuni film d’autore che hanno ottenuto il plauso della critica. Degno di nota è Zhang Yimou, considerato uno dei principali cineasti della “quinta generazione”, ovvero quei registi cinesi emersi dopo le riforme di Deng Xiaoping, che segnarono l’affermazione del cinema nazionale sulla scena mondiale. Zhang Yimou ha ricevuto tre candidature agli Oscar nella categoria Miglior film straniero per Ju Dou, Lanterne rosse e Hero.

Anche quest’anno, alla Biennale Cinema di Venezia, il cinema asiatico ha trovato spazio e riconoscimento con diversi titoli in concorso, tra cui The Sun Rises on Us All (Cina), diretto da Cai Shangjun, e Nühai (Taiwan) di Shu Qi.

Registi come Quan Ho e Lou Diep presentano da anni opere che esplorano le realtà sociali del Paese, riflettendo i tempi e le vite di un miliardo di cinesi. Tra questi spicca Black Dog (2024), diretto da Quan Ho, che ha suscitato grande interesse al Festival di Cannes 2024, dove ha vinto il premio “Unique Perspective” (Un Certain Regard). Il film segue Lang (interpretato da Peng Yuyan), un ex detenuto che torna nella sua città natale e stringe amicizia con un cane randagio, offrendo una riflessione commovente su chi è rimasto indietro nel rapido sviluppo economico della Cina.  È chiaro che il cinema cinese stia ampliando la sua portata e la sua profondità oltre i blockbuster commerciali. Tuttavia, resta in gran parte un prodotto destinato al mercato nazionale che al momento ha molto meno appeal del cinema e delle serie TV coreane che hanno travolto il pubblico internazionale con la loro onda.

Il cinema cinese ha imparato da Hollywood come fare spettacolo, ma non ha ancora trovato una voce universale, che possa durare in modo costante anche al di là dei confini nazionali.