Cinafrica. Rapporti solidi come il Kilimanjiaro

In by Simone

I rapporti tra la Cina e i paesi africani: imponenti regali di Pechino, investimenti, scambi, infrastrutture e materie prime. I rapporti tra il Dragone e il Continente nero sono «solidi come il Kilimanjaro e vibranti come lo Yangtze e il Fiume Giallo», ma i lavoratori cinesi corrono dei rischi.
Il futuro delle relazioni sino-africane è luminoso, almeno quanto la nuova sede dell’Unione africana ad Addis Abeba. La torre di marmo e vetro, alta 113 metri per una superficie di 110 mila metri quadri, è costata 200 milioni di dollari. Versati interamente da Pechino.

Non sorprende, dunque, che i 54 capi di stato africani, riuniti a fine gennaio per l’annuale assemblea, abbiano accolto con ogni onore l’inviato cinese, Jia Qinglin, presidente del Comitato nazionale della Conferenza politico consultiva del Dragone.

«I rapporti tra Africa e Cina si basano sul mutuo sostegno e l’assistenza reciproca», ha detto l’asiatico intervenendo al summit. E ancora: «Il nostro sostegno all’Africa non ha mai avuto motivazioni politiche».

La politica, in effetti, magari non c’entra, ma l’economia di sicuro sì. Per rendere i rapporti tra il Dragone e il Continente nero «solidi come il Kilimanjaro e vibranti come lo Yangtze e il Fiume Giallo», per ricalcare le parole dell’ambasciatore pechinese, la Cina ha promesso 95 milioni di dollari in tre anni all’Unione africana, pari a un terzo del budget annuale dell’organizzazione, che ammonta a 270 milioni.

E, soprattutto, ha promesso di riequilibrare la bilancia commerciale: anche in Africa l’invasione di merci cinesi a basso costo inizia a generare qualche mal di pancia.

Nel 2011, la Cina è diventata infatti il maggior partner commerciale dell’Africa: il volume di scambi ha raggiunto i 160 miliardi di dollari. Rispetto al 2010, l’aumento è stato del 23,5 %, con investimenti diretti pari a 13 miliardi di dollari e 2 mila aziende cinesi attive sul territorio.

Autostrade, ponti, aeroporti e dighe sono diventati il lasciapassare di Pechino, in cerca di petrolio e risorse naturali per la sua fame di energia, nell’Africa sub-sahariana.

Uno dei primi esperimenti fu la tratta ferroviaria tra Tanzania e Zambia, costruita tra il 1970 e il 1975 con capitali cinesi. Poi sono arrivati i progetti idroelettrici come la diga di Merowe in Sudan, quella di Bui in Ghana o del Gibe III in Etiopia.

E le cinque zone economiche speciali e di cooperazione commerciale istituite con Zambia, Nigeria, Mauritius, Egitto ed Etiopia, dove Pechino finanzierà anche la costruzione di una tratta ferroviaria lunga 320 chilometri per collegare la città di Sebeta a Meiso, località a Est di Addis Abeba.

Nel novembre 2011, il vice ministro del Commercio, Jiang Yaoping, firmò inoltre con la Tanzania una serie di accordi che prevedevano prestiti del valore di 95 milioni di dollari per lo sviluppo della rete di telecomunicazioni e dei trasporti.

Senza contare “regali” a puro scopo propagandistico come lo stadio nazionale di Maputo, in Mozambico, costato 500 milioni di yuan (60 milioni di euro) o lo stadio di Yaoundé, in Camerun, finanziato con 160 milioni di yuan. Entrambi monumenti all’amicizia tra Cina e Africa.

Progetti per la cui realizzazione le compagnie semi-statali cinesi preferiscono inviare forza lavoro dalla madrepatria anziché assumere personale locale, non senza qualche rischio.

Non solo si alienano le simpatie locali ma mettono spesso a rischio la vita dei lavoratori, come dimostrò la fuga di oltre 3.600 cinesi allo scoppio del conflitto libico.

L’ultimo caso, d’altra parte, è quello dei 29 lavoratori della Sinohydro Corp, la società cinese specializzata in centrali idroelettriche, rapiti a fine gennaio dai ribelli del Sudan People’s Liberation Movement-North, nella regione Nord-sudanese del Kardofan.

«L’instabilità politica è alla base di questi attacchi, ma non è da escludere che i cinesi siano diventati un bersaglio per essere poi usati come pedina di scambio nelle trattative con il governo», ha spiegato alla stampa il professor Li Xinfeng, africanista dell’Accademia cinese per le Scienze sociali di Pechino.

Ma i governi dell’Africa hanno ogni interesse a non tirare troppo la corda. Con l’assenza della Libia, il principale finanziatore dell’Unione africana nell’epoca di Muammar Gheddafi (15% del budget totale ), le donazioni cinesi sono destinate a diventare sempre più importanti per l’associazione, se questa spera di continuare a contare qualcosa sullo scacchiere globale.

Non è stato così nel 2011, quando è stata sostanzialmente estromessa dalle decisioni sulla guerra in Libia, e poco ha detto e fatto nelle violenze post elettorali in Costa d’Avorio tra Alassane Ouattara e Laurent Gbagbo.

Un’estromissione che pesa sull’orgoglio del continente. Per tornare ad avere un ruolo, insomma, l’Associazione africana deve contare sulla Cina. Per quanto strano possa sembrare.

[Scritto per Lettera43; foto credits: www.thebeijingaxis.com]