Dal 2012 la campagna contro la corruzione ha già indagato e punito 250mila funzionari. La Cina di provincia offre uno spaccato di chi sulla corruzione ha costruito le sue fortune. C’è quello che aveva una statua di Buddha in oro massiccio e quello che si faceva pagare le mostre fotografiche in Europa. Vizi e vizietti della classe dirigente cinese. Bo Xilai, Zhou Yongkang, Ling Jihua sono i nomi delle tre principali “tigri” (laohu) finite in gabbia nell’ambito della grande campagna anticorruzione cinese, iniziata poco prima dell’insediamento di Xi Jinping, a novembre 2012, e rilanciata poi alla grande dal nuovo presidente (della Repubblica)-segretario (del Partito), una volta in carica.
Di loro si sono pressoché perse le tracce, anche se di recente è giunta la notizia che tutti e tre avrebbero finto la pazzia durante gli interrogatori che, secondo alcune testimonianze, sfociano talvolta nella tortura. Farebbero i matti nel corso del cosiddetto shuanggui, un procedimento disciplinare che colpisce i membri del Partito, fuori da ogni procedura legale. In pratica, il funzionario deve presentarsi in un certo luogo a una certa ora e da lì, generalmente, sparisce per poi ricomparire dopo un variabile lasso di tempo e quasi immancabilmente con una confessione firmata dei propri crimini.
Ebbene, secondo la rivista di Hong Kong “The Trend” sia Zhou – l’ex potentissimo zar della sicurezza – sia Bo – il leader di Chongqing caduto in disgrazia e condannato all’ergastolo due anni fa – sarebbero ricorsi all’espediente, forse per ammorbidire le pratiche dello shuanggui. Bo Xilai si presentò comunque poi in formissima al processo del settembre 2013 e ribatté colpo su colpo alle accuse, senza per altro riuscire a evitare la condanna all’ergastolo. Zhou, che si trova sotto torchio proprio ora, avrebbe invece ormai rinunciato alla strategia del folle e infatti, si dice, avrebbe già firmato circa ventidue confessioni, chiedendo clemenza.
L’ultimo caso riguarda invece Ling Jihua, il fu braccio destro dell’ex presidente Hu Jintao, salito alle cronache nel 2012 quando suo figlio si stampò su una Ferrari, con donnine discinte a bordo, contro un ponte di Pechino, ammazzandosi. Sotto accusa per “serie violazioni disciplinari”, cioè corruzione, si sarebbe messo a cantare le canzoni socialiste dei tempi di Mao Zedong durante gli interrogatori e a sera suggerirebbe anche ai propri carcerieri di andare a casa a bersi un bicchiere alla propria salute. È probabile che a breve ricomparirà pure lui con la confessione in tasca.
Al di là di queste storie che riguardano i pezzi grossi, la campagna anticorruzione fa emergere una Cina profonda, con i suoi tic e le sue manie, soprattutto quando colpisce “le mosche”, cangying, l’altra componente identificata da Xi Jinping come obiettivo: i piccoli funzionari. Non passa giorno senza che qualcuno finisca nel sacco. Solo nel 2014 quasi 72mila pubblici ufficiali sono finiti nelle maglie dell’anticorruzione. Di questi, meno dell’uno per cento sono stati scagionati.
La Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, l’agenzia che coordina la campagna, ha annunciato ad aprile che nei primi tre mesi dell’anno erano già stati puniti 2.673 membri del Partito. Più del 90 per cento di questi casi avveniva a livello di villaggio, il più basso. Il reato più comune? L’uso improprio di veicoli ufficiali. Dal villaggio si sale su per la scala gerarchica e parallelamente cresce il valore delle bustarelle o degli affari illeciti. Ecco alcune storie recuperate dalle cronache degli ultimi mesi.
Ad agosto 2014, un funzionario di basso rango viene accusato del maggior caso di corruzione mai avvenuto nel Guangdong, la regione più ricca (e anche più corrotta) della Cina. Zhang Xinhua, 52 anni, si sarebbe messo in tasca circa 400 milioni di yuan (quasi 60 milioni di euro) nel giro di un quindicennio.
Nel processo, che si tiene a settembre, emerge che Zhang prendeva i fondi dell’azienda di Stato di cui era direttore generale e li trasferiva alla sua personalissima agenzia immobiliare, facendo poi operazioni finanziarie nel cosiddetto sistema finanziario “ombra” (al di fuori del controllo delle banche di Stato) e acquistando asset di vario genere: immobili (anche a Hong Kong), piccole manifatture, terreni e frutteti. Lui prima ribatte che le cifre imputategli “sono esagerate”, poi spiega che trasferendo liquidi alla sua attività intendeva solo mettere i soldi pubblici “al sicuro”. Certo, si era dimenticato di segnalarlo alle autorità competenti, che sbadato.
Che il Guangdong ci regali delle perle è confermato a settembre, quando si scopre che l’ex vicesindaco di Guangzhou, Cao Jianliao, avrebbe speso circa 17 milioni di dollari di Hong Kong (oltre due milioni di euro) come “buonuscita” per l’amante, conosciuta, ancora studentessa, nel 1992. Cao le avrebbe versato la somma in due tranche, dandole anche una mano a espatriare. Si chiama “accordo di terminazione”, pare sia molto in voga tra i funzionari cinesi e le rispettive concubine: io me ne vado senza spifferare e tu mi versi la tal cifra, nero su bianco.
L’inchiesta svela anche che Cao avrebbe intrattenuto relazioni con almeno undici donne a partire dal 1988: partner erotiche che spaziano dalle funzionarie governative, colleghe di lavoro, dirigenti di società, fino alla manager di un ristorante e perfino al personale di un negozio di attrezzatura tennistica. I funzionari del Partito comunista sono tenuti ad avere una vita personale irreprensibile. Nel loro caso, l’adulterio è considerato vero e proprio reato.
A ottobre si apprende che 6.484 funzionari di nove province sono sotto inchiesta, tra cui 2.350 dell’Heilongjiang, 513 dell’Henan e 60 dell’isola meridionale di Hainan. Cosa hanno combinato?
Pare che siano tutti “funzionari migranti”, cioè quelli che vivono in città ma sono spediti per servizio nelle campagne. Ebbene, i nostri pubblici ufficiali caricavano le spese di trasferta e invece se ne stavano “belli paciarotti” (Prosperini docet) a casa propria, senza svolgere il proprio lavoro. Che la campagna anticorruzione voglia essere “esemplare” (cioè dura), lo rivela il fatto che tale Cui Lianhai, ex segretario del Partito nel villaggio di Qinjiatun, provincia del Jilin, si becca vent’anni per avere fatturato 72.690 yuan in spese di viaggio nel giro 262 giorni (circa 10.700 euro): sono 278 yuan (50 euro) al giorno.
A novembre parte un giro di vite nell’Hebei, la provincia che circonda Pechino. Tra i vari casi di malaffare, si scopre quello di un anonimo funzionario che occultava oltre 100 milioni di yuan in contanti (quasi 15 milioni di euro) nonché 37 chili d’oro nel proprio appartamento. Inoltre, aveva accumulato 68 proprietà immobiliari.
Che l’oro sia bene rifugio – forse di fronte al rallentamento dell’economia cinese – è confermato a dicembre, quando emergono dettagli sulla vicenda di Gu Junshan, un generale dell’Esercito Popolare di Liberazione arrestato mesi prima. Il graduato era coinvolto in un enorme giro di corruzione da miliardi di yuan e, per pagare tangenti, si serviva di auto di lusso le cui carrozzerie erano imbottite con lingotti di metallo giallo. A sua volta, Re Mida Gu teneva in casa una statua del Buddha in oro massiccio. Questa vicenda si collega al giro di vite nelle forze armate che, secondo alcuni analisti, sarebbero così corrotte da non essere in grado di sostenere qualsivoglia operazione bellica, in caso di necessità. Un incubo per la nuova leadership cinese.
Era invece più affezionato alla giada Ni Fake, un ex governatore dell’Anhui, che sempre a dicembre ammette di avere accettato 13 milioni di yuan (quasi due milioni di euro) in mazzette consistenti nella pregiata pietra ornamentale. Che Ni sia tipo raffinato emerge anche dal fatto che nei 49 episodi di corruzione di cui è imputato avrebbe intascato anche quadri di valore, oltre a somme in denaro contante; ma la giada costituisce circa l’80 per cento di quanto ha sottratto alla collettività. Tra i pezzi di rilevo, una “giada di Hotan” (Xinjiang) dal valore di 3,5 milioni di yuan (515mila euro). In cambio, il collezionista-funzionario concedeva appalti immobiliari a una pletora di palazzinari.
Nello stesso mese, viene condannato all’ergastolo l’ex vicedirettore dello zoo di Pechino, Xiao Shaoxiang. Non è riuscito a convincere la corte che le ricchezze trovate in casa sua – sei milioni di yuan in contanti, più altri due milioni tra quadri e gettoni d’oro – fossero il frutto di “lavoretti part-time”, tra cui il tassista. Accusato di mazzette per un totale di 140 milioni di yuan (20 milioni di euro), Xiao spiega che, dopo il normale orario di lavoro allo zoo, affittava un’auto e scarrozzava clienti nelle ore notturne. Inoltre, commerciava in pietre, quadri, e qualche volta faceva il muratore: sempre di notte, infaticabile, tra lavoro manuale e verve artistica.
Che la società cinese stia raffinandosi, lo rivela anche il caso di Qin Yuhai, ex governatore della regione dello Henan con il pallino per la fotografia. Nella sua carriera di fotografo dilettante, ha esposto perfino in Italia e in Francia, ma lo scorso marzo la Commissione disciplinare del Partito rivela che diverse aziende hanno speso centinaia di migliaia di euro per compragli apparecchiature e garantirgli mostre all’estero. In cambio di contratti.
Infine, ad aprile, un caso che ci ricorda Arcore e dintorni. La passione per il feng shui gioca un brutto scherzo a Chen Hongping, segretario di Partito in una località del Guangdong, che avrebbe accettato circa 125 milioni in mazzette (oltre 18 milioni di euro) durante i suoi anni in carica. Chen ha infatti suscitato qualche sospetto quando si è lanciato nella costruzione del proprio mausoleo di famiglia per la bellezza di tre milioni e mezzo di yuan (515mila euro), facendo studi preventivi con tanto di compasso in mano, per renderlo feng shui compatibile. Oltre alla corruzione, Chen è a questo punto imputabile del fatto che i funzionari di Partito non possono cedere alle “superstizioni”.
Le storie non finiscono certo qui. La campagna anticorruzione è lo specchio di una Cina profonda e tradizionale, ma al tempo stesso ruspante e aperta sul nuovo. Così il feng shui si sposa con le mostre di fotografia, la concubina con i quadri d’autore. Forse, la modernità cinese è proprio questo: un sovrapporsi di simboli, valori e desideri, frullati dalla globalizzazione e dalla ricchezza acquisita (non ancora da tutti). Quando i leader di Pechino dicono che in Cina convivono primo, secondo e terzo mondo, forse, buttano un occhio anche alle cronache giudiziarie.