24 reporter del New York Times e Bloomberg sono tenuti in sospeso sul rinnovo dei visti. Il Congresso statunitenseha organizzato una tavola rotonda dove interverranno Paul Mooney, a cui è stato negato il visto come corrispondente Reuter, ed Edward Wong, attuale corrispondente del New York Times. Questione di contenuti scomodi, ma anche – e soprattutto – di molti soldi.
Sembra di essere tornati a prima del 2008, quando le Olimpiadi non avevano ancora modificato – seppure leggermente – la percezione dei giornalisti stranieri da parte del governo cinese. C’era da celebrare la Cina, con attenzione, ma era pur sempre una celebrazione. Ora due grandi testate, New York Times e l’agenzia Bloomberg, rischiano di non veder rinnovati i visti da giornalisti ai propri dipendenti. C’è di mezzo qualche reportage sgradito e una concezione del giornalismo che non combacia con quella occidentale. E tanti soldi.
Quando ci fu il Diciottesimo congresso del Partito Comunista, girava una battuta: «i giornalisti cinesi sono in prima fila nella Grande Sala del Popolo, quelli giapponesi sono in fondo, quelli del New York Times sono fuori, in piazza Tiananmen». Poco prima del Congresso un reportage del Nyt, che è valso il Pulitzer al suo autore, David Barboza, aveva svelato le ricchezze dell’allora premier Wen Jiabao. Il risultato fu l’oscuramento del sito in Cina e la mancata concessione di entrare nella Grande Sala del Popolo per assistere all’investitura di Xi Jinping (e la perdita di parecchi soldi in pubblicità anche sull’edizione cartacea americana).
Proprio il neo Presidente cinese, era stato il protagonista di un altro report, questa volta di Bloomberg. Anche in quel caso l’articolo riportava le connessioni miliardarie di Xi. Il risultato fu identico: sito oscurato e vita dura per i cronisti dell’agenzia. Nel frattempo, si è scoperto che – forse a causa di questo precedente – Bloomberg ha censurato alcuni reportage sui collegamenti tra politica e miliardari cinesi, per non incorrere in sanzioni da parte dello Stato cinese. Precauzione che pare essere servita a poco, dato che la notizia di questi giorni racconta del problema ad ottenere i visti tanto per i giornalisti di Bloomberg, quanto per quelli del New York Times.
Un giornalista della testa americana ha raccontato che «abbiamo avuto un paio di persone a cui hanno restituito i passaporti con su scritto in pratica che il ministero degli Esteri non dava visti al New York Times. In passato, i funzionari cinesi hanno fatto sudare freddo alcuni giornalisti, ritardando la loro approvazione fino all’ultimo minuto».
Il Telegraph ha scritto che «un portavoce dell’ambasciata degli Stati Uniti ha detto che i diplomatici sono in discussioni continue con le loro controparti cinesi per esortarli a rispettare i diritti umani internazionalmente riconosciuti e le libertà fondamentali. Siamo profondamente preoccupati che i giornalisti stranieri in Cina affrontino restrizioni che ostacolano la loro capacità di svolgere il loro lavoro, tra cui ritardi prolungati nella procedura per i visti, le restrizioni in materia di accesso ai luoghi e gli individui sensibili e la pressione sul personale locale, ha detto il portavoce Nolan Barkhouse. Ai giornalisti e accademici cinesi e stranieri dovrebbero essere consentito operare liberamente».
Ci sono almeno tre questioni di fondo al riguardo: la prima è che in Cina il giornalismo non viene considerato come un tentativo di svelare processi, per mettere il lettore in grado di farsi un’idea personale sui fatti. Ci sono esperimenti di giornalismo di inchiesta ma tutto è ancora piuttosto sotto traccia. In Cina i giornalisti spesso accettano di essere pagati per scrivere, ad esempio, quindi la considerazione che l’opinione pubblica ha dei giornalisti non è in assoluto la migliore. Quindi nessuno si straccia le vesti se i giornalisti stranieri vengono cacciati. Per i cinesi, la maggiora parte, sono dei fastidiosi ficcanaso.
In secondo luogo c’è la nuova arroganza cinese che si esprime anche attraverso questi gesti: i giornalisti stranieri ormai non hanno più lo scopo di raccontare una grandezza che è già stata raggiunta, ma diventano i corollari di una presenza occidentale che se è per business, viene sopportata, se è per informare, diventa un ostacolo (agli occhi dei cinesi).
Infine, ragionando in un’ottica più allargata, stiamo parlando solo di informazione? Sembra proprio di no. Il Wall Street Journal ha scritto che «i servizi di trading in valuta estera di Bloomberg e Thomson Reuters saranno pronti per una crescita significativa nel caso in cui allo yuan cinese sarà permesso di oscillare liberamente contro altre valute, per esempio. Per Thomson Reuters da solo, un tale sviluppo potrebbe creare 100 milioni di dollari di business di entrate, secondo le stime di un ex dirigente».
E c’è anche la questione legata alla pubblicità: «la spesa della pubblicità su Internet in Cina è probabilmente intorno ai 9,5 miliardi di dollari quest’anno, contro i 36,3 miliardi dollari negli Stati Uniti, secondo l’agenzia sui media mondiali ZenithOptimedia. Ma la spesa cinese dovrebbe aumentare di due terzi a 15,9 miliardi dollari entro il 2015, superando in termini percentuali l’aumento stimato del 41% a 50,9 miliardi dollari negli Stati Uniti. E mentre le società dei media stranieri non sono autorizzate a pubblicare giornali in Cina, le notizie online in lingua cinese sono viste come una grande opportunità. La Cina aveva 380,7 milioni di utenti Internet nel mese di ottobre, rispetto ai 225,2 milioni degli Stati Uniti , secondo comScore».
[Scritto per East]