Cina e Usa verso le sanzioni a Pyongyang

In by Gabriele Battaglia

L’incontro di Washington si conclude con un’intesa di massima sulle sanzioni. L’intento è quello di riportare la Corea del Nord al tavolo dei colloqui a sei. John Kerry apre alla possibilità di sancire la pace definitiva dopo il conflitto del 1950-53, a patto che Pyongyang accetti la denuclearizzazione della penisola. Stati Uniti e Cina hanno fatto progressi verso un accordo su una risoluzione delle Nazioni Unite che vari sanzioni per punire la Corea del Nord a causa dei suoi recenti test nucleari. L’hanno confermato dopo i colloqui di Washington del 23 febbraio, il ministro degli Esteri, Wang Yi, e il segretario di Stato americano, John Kerry. I due massimi esponenti delle rispettive diplomazie hanno detto che i dettagli della risoluzione sono ancora in corso di valutazione, ma che Usa e Cina sperano di essere d’accordo su una linea comune nei prossimi giorni.

C’è consenso nel sostenere che l’obiettivo delle eventuali sanzioni non è quello di peggiorare la situazione di stallo con il regime nordcoreano di Kim Jong-un, bensì di convincere Pyongyang a riprendere i colloqui sulla fine del suo programma nucleare. Si punta anche a ricostruire un dialogo tra il regime e la comunità internazionale.
Insomma, Pechino e Washington vorrebbero una ripresa dei cosiddetti colloqui a sei, cioè quelli che dovrebbero far sedere attorno a un tavolo oltre alla Corea del Nord, Cina, Stati Uniti, Russia, Corea del Sud e Giappone. Ma è sicuro che sia anche quello che vuole Pyongyang?

Leggere la logica dietro alle mosse del regime dei Kim è sempre difficile, ma c’è consenso tra gli analisti più avveduti nel dire che nonostante la narrativa occidentale racconti di un giovane leader pingue, folle e irresponsabile, una logica comunque ci sarebbe. Consisterebbe nel cercare non solo un riconoscimento internazionale, ma anche una condizione di sicurezza futura, attraverso la firma della pace definitiva dopo la guerra di Corea dei primi anni Cinquanta: una pace che di fatto non è mai stata firmata, a oggi c’è in vigore un armistizio che dura dal 1953.

Secondo questa interpretazione, Pyongyang non guarda tanto ai paesi che la circondano, quanto a Washington: il regime cerca la certezza della propria sopravvivenza attraverso la ratifica di un trattato di pace che lo metterebbe al sicuro da ogni tentativo di «regime change» tentato dagli Stati Uniti. E così, per non restare tagliati fuori, per impedire che i conti si facciano senza l’oste e per garantire la propria sopravvivenza, il regime continua con le provocazioni.

Dall’altra parte, è difficile che gli Stati Uniti – quale sia l’amministrazione al comando – decidano mai di sedersi al tavolo in un rapporto «alla pari» con il regime nordcoreano. Secondo un sondaggio Gallup pubblicato lunedì, il 16 per cento degli americani identificano nella Corea del Nord «il più grande nemico» del proprio paese, davanti a Russia (15 per cento), Iran (14) e Cina (12).
John Kerry ha però aperto a una soluzione del genere dopo i colloqui con Wang Yi, sottolineando che gli Stati Uniti non hanno preclusioni verso un accordo di pace finale per concludere la guerra 1950-1953, qualora Pyongyang accetti di «venire al tavolo e negoziare la denuclearizzazione».

E la Cina? Per molti è il tutore del regime dei Kim, il paese che tiene in piedi un’economia – quella della Corea del Nord – totalmente fallita e parassita. Tuttavia le continue provocazioni di Pyongyang sembrerebbero rivelare che di fatto Pechino ha poca presa sul riottoso vicino di casa. Nei giorni scorsi, un giornale sudcoreano ha scritto che la filiale della Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) di Dandong – la città al confine tra Cina e Corea del Nord – ha congelato tutti i conti nordcoreani. Il ministero degli Esteri cinese nega per ora di essere a conoscenza di tali operazioni.