Mentre si attendono nuove sanzioni internazionali in risposta al quinto test nucleare nordcoreano, Pechino e Washington promettono di rafforzare la cooperazione all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con l’obiettivo di raggiungere la denuclearizzazione della penisola coreana. Stavolta però alle parole sono già seguiti i fatti. Una società con base a Dandong, sul versante cinese del confine sino-coreano, è indagata dalle autorità locali per presunti reati economici. Ma secondo un rapporto indipendente rilasciato martedì, a mettere in allarme Cina e Stati Uniti sarebbe in realtà il commercio di beni dual use con il regime di Kim Jong-un.
Mentre si attendono nuove sanzioni internazionali in risposta al quinto test nucleare nordcoreano, Pechino e Washington promettono di rafforzare la cooperazione all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con l’obiettivo di raggiungere la denuclearizzazione della penisola coreana. È quanto emerge dal comunicato rilasciato al termine del bilaterale tra il presidente americano Barack Obama e il premier cinese Li Keqiang a margine dell’annuale Assemblea generale dell’Onu.
Non è certo la prima volta che le due potenze mondiali sventolano un’intesa granitica sul dossier nordcoreano, salvo poi riscontrare frizioni nelle modalità con cui effettuare il pressing diplomatico: dalla ritrosia di Washington riguardo una ripresa del dialogo con Pyongyang in assenza di una rinuncia concreta al programma nucleare, al dispiegamento a sud del 38esimo parallelo del sistema antimissile Thaad osteggiato da Pechino, passando per la reticenza dimostrata dal governo cinese davanti all’ipotesi di scaricare in toto – non solo politicamente ma anche economicamente- il vecchio alleato. Il che equivarrebbe ad assumersi i rischi di una Corea del Nord al collasso, con conseguente possibile alluvione di sfollati da oltreconfine e soldati americani alle porte – 30mila quelli ancora in Corea del Sud.
Nonostante all’indomani del penultimo esperimento atomico (quello di gennaio) Pechino abbia avvallato l’introduzione di nuove sanzioni, c’è chi ritiene che i controlli necessari a verificarne l’attuazione siano eccessivamente rilassati», specie lungo la porosa frontiera sino-coreana . Una disattenzione che vale miliardi di dollari, considerato che il gigante asiatico conta ancora per il 90 per cento del commercio estero di Pyongyang.
Stavolta, tuttavia, i buoni propositi potrebbero non rimanere lettera morta. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, Washington e Pechino stanno lavorando in tandem per colpire una società cinese sospettata di condurre attività illecite a vantaggio del regime nordcoreano.
Si tratta della Dandong Hongxiang Industrial Development Company Ltd., azienda fondata nel 2000 dalla 44enne Ma Xiaohong nella città nordorientale di Dandong, lungo il confine sino-coreano, rimarcato dall’argine del fiume Yalu. Poi espansa fino a diventare una conglomerata, la Liaoning Hongxiang Industrial Group, che oggi conta 680 impiegati e opera nei settori più disparati dal turismo fino al commercio di materiali chimici, metalli, minerali e carbone, zoccolo duro dell’export nordcoreano nonché principale fonte di «valuta forte» per la leadership di Kim Jong-un. «Un ponte d’oro tra Cina e Corea del Nord», l’ha eloquentemente definita la sua chairwoman. Non a caso tra gli asset di punta del gruppo spicca una flotta di dieci navi cargo utilizzate, tra le altre cose, per trasportare il combustibile fossile fuori dal Regno eremita.
Lo scorso aprile le importazioni di carbone nordcoreano sono state bandite dal ministero del Commercio cinese, salvo nel caso in cui i ricavi siano destinati a «mezzi di sussistenza. Un’agevole scappatoia che spiega il misero calo registrato dalle vendite nordcoreane, di appena il 12 per cento secondo gli ultimi dati.
Mentre -stando al quotidiano finanziario- il dipartimento di Giustizia americano potrebbe annunciare azioni legali questa settimana stessa, alcuni giorni fa le autorità del Liaoning (la provincia dove sorge Dandong) hanno reso noto che la Hongxiang è già indagata per «gravi reati economici». La nota, apparsa sul sito del governo locale, si astiene dal mettere in relazione l’inchiesta alle attività intrattenute dalla conglomerata a nord del 38esimo parallelo, né specifica se gli accertamenti riguardano anche Miss Ma. Rivela soltanto che «le autorità di pubblica sicurezza del Liaoning hanno scoperto che la Dandong Hongxiang Industrial Development Company e una persona ritenuta gravemente responsabile sono incorsi in presunti crimini economici nel corso delle loro attività».
Con tempismo svizzero, a fornire preziosi dettagli ci pensa un rapporto («In China’s Shadow») realizzato congiuntamente dal sudcoreano Asan Institute for Policy Studies e dal gruppo di ricerca americano C4ADS, in cui, senza giri di parole, la società viene accusata di aver aiutato Pyongyang a sviluppare il suo arsenale nucleare. Nello specifico si parla della spedizione di ossido di alluminio, un materiale che – secondo la United States Nuclear Regulatory Commission – viene utilizzato per prevenire la corrosione nelle centrifughe a gas durante il processo di arricchimento dell’uranio e che pertanto, nel 2013, era stato inserito dal ministero del Commercio cinese nella lista dei materiali vietati alla vendita in Corea del Nord.
Secondo i registri doganali, nel mese di settembre le consegne di ossido di alluminio realizzate dalla Hongxiang oltre il fiume Yalu ammontavano a oltre 253.000 dollari, mentre tra gennaio 2011 e settembre 2015 le transazioni tra la società e il Regno eremita hanno toccato complessivamente i 500 milioni. Un importo che l’Asan ritiene «quasi sufficiente a finanziare gli impianti per l’arricchimento dell’uranio, nonché a progettare, fabbricare e testare armi nucleari»
Il report conclude che, alla luce delle sanzioni previste dalla risoluzione 2270 approvata a marzo dalle Nazioni Unite, i prodotti commerciati dall’azienda sono considerabili come materiali dual-use, ovvero impiegabili potenzialmente sia per scopi pacifici che per fini militari/nucleari.
Secondo documenti governativi e aziendali, nelle ultime settimane le autorità cinesi hanno provveduto a congelare parte degli asset del gruppo, così come certi beni detenuti da Ma e soggetti a lei prossimi. Ma è lecito pensare che il nome dell’imprenditrice, già emerso nell’ambito dei Panama Papers, fosse da tempo sotto la lente di Pechino. E non solo in relazione al business nordcoreano.
Mentre parte degli analisti ha salutato l’indagine come un incoraggiante precedente, qualcun’altro invita alla cautela. Incoraggiante lo è se si considera la sinergia raggiunta tra le due sponde del Pacifico durante le fasi preliminari dell’inchiesta, che ha visto funzionari del dipartimento di Giustizia americano effettuare ripetute visite oltre la Muraglia. D’altra parte, «se gli Stati Uniti pronunciano accuse concrete, la Cina è obbligata a intervenire», ha spiegato al New York Times Cheng Xiaohe, professore di relazioni internazionali presso al Renmin University di Pechino che, escludendo una caccia alle streghe, prevede piuttosto l’immolazione di altri pesci piccoli come avvertimento per istituti di credito e altri pesi massimi.
In fondo Ma Xiaohong non era che un pesce medio caduto in disgrazia. Nominata nel 2011 nella top ten delle «donne più rilevanti» di Dandong e finita un anno più tardi nella classifica annuale della China Association of Women Entrepreneurs, a giugno sembrava ancora salda in sella quando il ministro del Commercio le consegnò una licenza speciale per le importazioni di prodotti petroliferi, che raramente viene concessa alle imprese private. Ma, si sa, i venti della politica cambiano rapidamente nella Cina di Xi Jinping, e appena pochi giorni fa la fondatrice di Hongxiang compariva tra i 452 delegati dell’Assemblea del popolo del Liaoning silurati nell’ambito di un roboante caso di corruzione che ha travolto il parlamento cinese. Corea del Nord o meno, i giorni di Ma sembrano ugualmente contati.