Sotto “una nuvola di sfiducia reciproca” è cominciato a Washington il dialogo economico-strategico tra Cina e Usa. La potenza di oggi e quella, forse, di domani, si prendono le misure e cercano di capire dove andare a parare. Ecco i temi caldi, senza farsi illusioni che i problemi siano risolti qui e ora. Sono oltre quattrocento i funzionari cinesi calati su Washington per la settima edizione del “dialogo economico-strategico” tra Stati Uniti e Cina.
Guidano la truppa Yang Jiechi, ex ministro degli Esteri e ora "consigliere di Stato" (figura di spicco del governo) affiancato dal vice premier Wang Yang, mentre gli Usa schierano il segretario di Stato John Kerry e quello al Tesoro Jacob Lew.
Il dialogo affronta i nodi diplomatici ed economici che dividono la prima e la seconda economia mondiali, la superpotenza di oggi e quella, forse, di domani, sotto quella che media statunitensi definiscono “una nuvola di sfiducia reciproca”.
Tantissima la carne al fuoco, ma non si prevedono annunci roboanti.
Nel tentativo di riaffermare lo status di primus inter pares e di poliziotto globale per il proprio Paese, il vicepresidente Usa, Joe Biden, ha accolto gli ospiti d’Oriente dicendo che Stati Uniti e Cina hanno il dovere di fare le regole per tutti i più importanti-negoziati globali: "La Cina deve sedersi al tavolo dove sono scritte le nuove regole, il successo futuro e l’influenza globale della Cina sono direttamente proporzionali a quanto essa agisce da partner responsabile", cioè, si presume, accondiscendente. Il vice Obama ha lasciato intendere che i due Paesi non risolveranno tutte le loro differenze nel corso delle riunioni; si impegneranno piuttosto a lavorarci su.
Si ritiene che gli americani insisteranno soprattutto sulle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino ha recentemente costruito insediamenti artificiali su isole contese, rivendicandole come proprie. La Cina ha già messo le mani avanti dichiarando che le nuove installazioni svolgono soprattutto una funzione meteorologica di utilità comune, mentre il magazine indipendente “The Diplomat”, ha rimarcato come negli ultimi anni sia stato soprattutto il Vietnam, e non la Cina, ad allargarsi nell’area contesa.
Il tira e molla continua ed è difficile che si trovi una soluzione in questa sede, anche perché la Cina – contrariamente agli auspici di Biden – non riconosce agli Stati Uniti voce in capitolo in quell’area di mondo. Da parte loro, gli americani non riconoscono invece alla Cina lo status di pari grado e, rivendicando il proprio eccezionalismo, fanno orecchie da mercante quando i cinesi insistono sulla formula diplomatica che vorrebbero introdurre per ridefinire il rapporto bilaterale: il cosiddetto “nuovo tipo di relazioni tra maggiori potenze”, un’espressione che collocherebbe automaticamente Pechino allo stesso livello di Washington. Non se ne parla: gli Stati Uniti si riservano comunque di contenere la Cina in base ai propri interessi geopolitici.
Altro tema caldo è il cyberspionaggio, con Washington che accusa hackers cinesi di essere penetrati nei dati personali di migliaia di funzionari statunitensi. È probabile che il tema sia sollevato durante i colloqui bilaterali, ma con grande imbarazzo. Il caso Snowden ha infatti rivelato che gli Stati Uniti sono i primi ad attuarlo, il cyberspionaggio, e diverse figure dell’intelligence americana hanno già giustificato le attività degli hackers cinesi dicendo: “Pure noi avremmo fatto lo stesso”.
Si parlerà anche di clima. Al vertice Apec di novembre i due Paesi si sono per la prima volta impegnati congiuntamente alla riduzione delle emissioni, ma in maniera unilaterale: ognuno ha comunicato indipendentemente quali impegni intende assumere e per la prima volta la Cina ha messo nero su bianco che le proprie emissioni toccheranno un picco nel 2030, per poi calare. Ora, bisogna però gettare le basi affinché il summit globale sul clima, previsto per dicembre a Parigi, non fallisca. In quella sede, gli impegni vincolanti reciproci, cioè il compromesso, dovranno valere più delle mosse unilaterali. Cina e Usa sono ancora divisi sulle rispettive responsabilità, cioè su chi deve fare il primo passo e impegnarsi di più.
Da buon ultimo, ma non per questo meno importante, il commercio: sul tavolo c’è un trattato di investimenti bilaterali. I due Paesi dovrebbero presentare una cosiddetta “lista negativa” di settori chiusi a questi investimenti, in quanto considerati strategici o legati alla sicurezza e quindi da proteggere. Washington protesta per le barriere protezionistiche che Pechino continua a mantenere in settori come l’agricoltura, il manifatturiero, ma anche l’assicurativo-finanziario. Dall’altra parte, si risponde che questi settori necessitano di protezione finché la Cina non raggiungerà il livello dei Paesi sviluppati. Allora, potrà aprirli e competere veramente alla pari.
Il summit è importantissimo per rilanciare il dialogo, ma è difficile che produca qualcosa di definitivo. Serve più che altro a preparare la visita di Xi Jinping negli Usa, prevista da qui a tre mesi. Sarà allora che, forse, "la nuvola di sfiducia reciproca" verrà soffiata via. La portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hong Lei, ha citato un detto cinese: “Proprio come la distanza mette alla prova la forza di un cavallo, il tempo rivelerà la sincerità di una persona.”