La calma con cui Washington e Pechino sembravano avvicinarsi al probabile incontro di fine ottobre fra Trump e Xi era solo apparente. Resta uno spiraglio per una de escalation, ma è sempre più chiaro che un vero accordo è un’ipotesi remota
È il 29 settembre, poco più di 24 ore prima della festa nazionale della Repubblica popolare cinese. L’amministrazione Trump pubblica una nuova norma che amplia drasticamente la stretta degli Stati uniti contro le affiliate delle aziende sotto sanzioni, soggette ora alle stesse restrizioni. Una misura repressiva che prende di mira soprattutto i giganti tecnologici della Cina, a partire da Huawei.
È l’antefatto di quanto accaduto venerdì, quando Pechino ha annunciato un pacchetto di restrizioni sull’export di terre rare e tecnologie collegate, in vigore dal 1° dicembre. Dopo aver già statalizzato la filiera e predisposto un sistema di monitoraggio centralizzato sui flussi dal territorio cinese, stavolta la manovra colpisce in particolare le aziende straniere. D’ora in poi, ogni prodotto contenente anche minime quantità di elementi cinesi — dai magneti per semiconduttori ai materiali per batterie al litio — dovrà ottenere una licenza del ministero del Commercio. Le misure si estenderanno anche ai prodotti realizzati all’estero che impiegano tecniche di estrazione, raffinazione o riciclo di origine cinese. Ufficialmente si tratta di una misura “per la sicurezza nazionale”, con l’obiettivo di impedire che risorse o tecnologie cinesi vengano utilizzate all’estero per scopi militari o altri usi sensibili. Ma il tempismo non lascia dubbi: si tratta di una ritorsione anti Washington.
Donald Trump ha risposto con le consuete armi tariffarie, annunciando dazi aggiuntivi del 100% su tutti i prodotti cinesi a partire dal 1° novembre, in pratica accorciando la tregua tariffaria di 90 giorni in vigore da agosto. “La Cina è diventata molto ostile”, ha detto il presidente, accusandola di “tenere il mondo prigioniero” con il monopolio delle terre rare con una misura “senza precedenti”. A Pechino, ricordano però che gli Stati uniti chiedono a loro volta delle licenze ai produttori di chip asiatici ed europei per esportare in Cina semiconduttori contenenti tecnologia statunitense. Anzi, proprio a settembre c’è stato un inasprimento in tal senso, che sta colpendo il cordone di silicio che collega il mercato cinese ai colossi di Taiwan (TSMC) e Corea del sud (Samsung e SK Hynix). Il tutto mentre Washington prova a portarsi in casa la produzione. Dopo aver convinto TSMC ad aumentare esponenzialmente gli investimenti sul territorio statunitense, nelle scorse settimane l’amministrazione Trump ha paventato una possibile ripartizione al 50-50 nella fabbricazione e assemblaggio di chip con le aziende taiwanesi, che al momento detengono da sole quasi il 60% del comparto a livello globale. Il vice premier di Taiwan Cheng Li-chiun, che sta guidando i negoziati tariffari con gli Usa, ha escluso la possibilità. Ma la dipendenza di Taipei dall’ombrello di sicurezza americano potrebbe cambiare gli equilibri.
Oltre ad annunciare i nuovi dazi, che rischiano di riportare in vigore la sorta di embargo de facto raggiunta lo scorso aprile prima della tregua, Trump messo in dubbio l’attesissimo incontro con Xi Jinping, che si dovrebbe tenere a fine ottobre a margine del summit Apec in Corea. “Negli ultimi sei mesi i nostri rapporti erano stati buoni, ma ora non sembra più esserci una ragione per incontrarlo”, ha detto il presidente americano. Nessuna risposta (come prevedibile) da Xi, che si sta preparando al cruciale plenum del Partito comunista con cui metterà a punto il piano quinquennale 2026-2030, che secondo il Quotidiano del Popolo mostrerà la solidità dell’economia cinese, paragonata a una “portaerei inaffondabile”.
La nuova rottura ha scosso Wall Street: venerdì, lo S&P 500 ha perso il 2,7%, il Nasdaq oltre il 3,5%, bruciando più di 1500 miliardi di dollari di capitalizzazione. Ma resta uno spiraglio per una de escalation. Nei precedenti round tariffari, l’introduzione dei dazi era sempre stata molto più rapida. Stavolta, c’è un margine di 20 giorni per altri colloqui e potenzialmente per l’incontro tra leader che potrebbe produrre una nuova tregua.
La convinzione di molti era che si potesse arrivare all’agognato faccia a faccia in un clima di parziale distensione. La Cina aveva concesso a Trump l’opportunità di tenere acceso TikTok (pur mantenendo la proprietà del prezioso algoritmo), la Casa bianca era stata più cauta del solito su Taiwan, bloccando 400 milioni di aiuti militari. Non è bastato. Pechino è convinta di avere trovato una leva negoziale formidabile nelle terre rare e dopo l’accordo su TikTok si aspettava concessioni rilevanti su tecnologia e rimozione delle barriere per gli investimenti. Al contropiede trumpiano sui chip, Xi ha deciso dunque di rispondere con forza. A sua volta, Trump non può mostrarsi debole. La logica è piuttosto chiara: massima pressione per avere le massime concessioni. Una scommessa incrociata che non è detto funzioni.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.
