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Che fine ha fatto la “democrazia di base” in Cina?

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Che fine ha fatto la “democrazia di base” in Cina? La parabola del villaggio di Wukan è legata in parte alle contingenze politiche di quegli anni. Ma in realtà non rappresenta un caso isolato. Lo dimostra lo studio The Rise and Fall of Local Elections in China, realizzato da Monica Martinez-Bravo, Gerard Padró i Miquel, Nancy Qian, e l’autorevole economista cinese Yang Yao. Pubblicata nel 2022 sull’American Economic Review, la ricerca, condotta tra il 2006 e il 2019, fa luce sul sistema delle elezioni di villaggio, la divisione amministrativa di più basso livello in Cina, nonché l’unica che prevede diritto di voto per i cittadini, mentre i leader nazionali sono selezionati attraverso un complesso processo decisionale che coinvolge direttamente solo gli alti funzionari.

Scontri feroci con la polizia, sassaiole e tanti arresti e feriti. È il 2011 e siamo a Wukan, villaggio della provincia cinese del Guangdong, dove oltre ventimila persone protestano per mesi contro le espropriazioni forzate delle terre, comprate a prezzi stracciati e poi rivenduta a un miliardo di yuan. Wukan diventa il simbolo delle lotte cinesi contro i soprusi del governo. Di più: agli occhi dell’occidente, è la prova concreta che esiste una “via democratica alla cinese”. La capacità degli abitanti del posto di dotarsi di un media center, di sapersi districare nel mondo della comunicazione e ottenere una visibilità planetaria, scuote gli osservatori internazionali, abituati a considerare la Cina un paese “narcotizzato” dalla propaganda del partito comunista, governato col pugno di ferro, e pertanto refrattario a manifestazioni di pubblico dissenso.

Dopo le prime proteste i funzionari scappano e Wukan realizza una straordinaria forma di autogestione. Vengono indette elezioni dirette per la nomina di un nuovo capo villaggio: vincono Lin Zuluan, il leader delle insurrezioni, e altri sei membri preposti alla gestione delle finanze del villaggio. Ma il successo dell’esperimento Wukan si dimostra fin da subito parziale e soprattutto di breve durata. Nel giugno 2016 Lin viene arrestato e condannato a tre anni di carcere con l’accusa (pare montata) di aver intascato tangenti, come un funzionario qualunque.

La parabola di Wukan è legata in parte alle contingenze politiche di quegli anni: la transizione verso la presidenza Xi Jinping è stata accompagnata da un dibattito interno su due modelli di governance, uno “neomaoista” con base a Chongqing, e l’altro “liberale” associato al Guangdong. Ma in realtà non rappresenta un caso isolato. Lo dimostra lo studio The Rise and Fall of Local Elections in China, realizzato da Monica Martinez-Bravo, Gerard Padró i Miquel, Nancy Qian, e l’autorevole economista cinese Yang Yao. Pubblicata nel 2022 sull’American Economic Review, la ricerca, condotta tra il 2006 e il 2019, fa luce sul sistema delle elezioni di villaggio, la divisione amministrativa di più basso livello in Cina, nonché l’unica che prevede diritto di voto per i cittadini, mentre i leader nazionali sono selezionati attraverso un complesso processo decisionale che coinvolge direttamente solo gli alti funzionari.

La sperimentazione elettorale comincia nel 1987, all’epoca delle riforme denghiane. Con circa 700.000 villaggi per un miliardo di abitanti, la dirigenza cinese, appena uscita dagli stravolgimenti dell’era maoista, fatica a tenere conto di quanto avviene nelle aree più remote del paese, dove le mansioni amministrative vengono svolte in tandem dal capo del comitato di villaggio e dal segretario della sezione locale del partito comunista. Tanto che nel 1987 l’allora vicepresidente del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, il “parlamento” cinese, dichiara che non bastano “48 ore al giorno” per riuscire a supervisionare tutti i quadri rurali.

La preoccupazione del governo centrale di Pechino è rivolta soprattutto alla scarsa efficienza delle autorità locali nel fornire beni pubblici (fossati per l’irrigazione, edifici scolastici e strade locali). Ma anche all’incapacità di far rispettare politiche nazionali spesso sgradite alla popolazione, come la pianificazione famigliare. Allo stesso tempo delegare il controllo ai cittadini contribuiva a combattere la corruzione, responsabilizzando i funzionari locali in modo più efficace rispetto al tipico sistema verticistico. In modo più efficace ma anche meno dispendioso, considerata la fase storica di faticosa ripresa economica e complicata ristrutturazione burocratica.

Il vantaggio della cosiddetta “democrazia di base” è intuibile: i candidati sono in genere personalità ben note agli abitanti del villaggio, con dimestichezza delle problematiche locali. E pertanto scelti per qualità apprezzate dai compaesani, che in loro ripongono piena fiducia. Fattore che non assicura, ma quantomeno favorisce la stabilità sociale. Lo studio conferma come, nei 217 casi esaminati, i villaggi dove sono state condotte elezioni dirette abbiano ottenuto alcune agevolazioni: meno terreni espropriati, migliori servizi pubblici, nonché una frequente esenzione delle famiglie dalla politica del figlio unico.

Anche il leader scelto dai cittadini ha, in virtù del mandato popolare, acquisito maggiori poteri, riuscendo a introdurre un numero di provvedimenti superiore rispetto al segretario del partito locale, nominato dai suoi superiori anziché dagli elettori. Inoltre, la ricerca individua un collegamento molto stretto tra le prospettive di carriera del capo di villaggio e la soddisfazione dei residenti nei confronti del suo operato: secondo i dati raccolti, una riconferma alla guida del comitato di villaggio risulta più probabile in seguito all’implementazione di politiche popolari, mentre lo è meno in caso di misure osteggiate dalla popolazione. Segno di come, fronteggiare il giudizio degli elettori sia di incentivo all’adempimento delle proprie responsabilità.

Supervisionato dal Ministero degli Affari Civili, alla fine degli anni ’90 il sistema delle elezioni locali risultava ormai adottato nella stragrande maggioranza dei villaggi cinesi. L’esperimento lasciava, tuttavia, insoluti diversi nodi: non ha mai chiarito il rapporto di potere tra il comitato di villaggio e il segretario del partito, rapporto gestito in maniera differente a seconda delle località. Per questo e per altri motivi, Pechino ha sempre considerato quella elettorale una soluzione temporanea da archiviare appena possibile.

Spesso, infatti, gli interessi della leadership centrale non coincidono con le priorità dei rappresentanti locali, che hanno pochi stimoli a implementare le direttive calate dall’alto quando incontrano la contrarietà dei cittadini. Pertanto, a lungo andare, la delega delle responsabilità comporta un indebolimento – non un rafforzamento – dell’autorità centrale. Consolidare il controllo verticale costituisce, agli occhi della dirigenza, un’alternativa più attraente per migliorare la governance locale. Una volta ottenute le risorse necessarie, il Pechino ha quindi optato per investire nel sistema burocratico attraverso un approccio top-down. Fattore a cui, secondo gli autori dello studio, può aver contribuito anche un cambiamento delle priorità a livello nazionale.

La nuova strategia si è imposta gradualmente nell’arco di un trentennio. Tra il 1980 e il 2015, con la travolgente ascesa economica della Cina, le entrate governative sono lievitate di oltre venti volte. La spesa destinata alla burocrazia è aumentata dall’1,46% al 2,73% del PIL, mentre il numero degli impiegati statali è passato dal milione della metà degli anni ’80 agli oltre 7 milioni del 2015, con un tasso di crescita molto più elevato della popolazione.

A questo punto il governo cinese ha tutto ciò che gli serve per esercitare un controllo più capillare. L’autonomia dei villaggi viene di conseguenza ridotta. Soprattutto a partire dal 2003, anno in cui viene introdotta la riforma fiscale, rendendo illegale per i governi dei villaggi utilizzare tasse ad hoc per finanziare investimenti pubblici, che vengono invece compensati con finanziamenti erogati dalle amministrazioni di livello superiore.

Lo scopo dichiarato è quello di ridurre l’onere fiscale delle famiglie rurali. Ma in realtà la riforma diventa uno strumento per esercitare un’ingerenza più intrusiva sui villaggi, grazie al coinvolgimento crescente delle autorità di contea. Il cambiamento avviene su scala nazionale, sebbene con effetto minore nei centri abitati più remoti.

Ufficialmente, il sistema delle elezioni dirette resta tutt’oggi in vigore, ma la sua portata risulta radicalmente ridimensionata. Dal 2011, la partecipazione di candidati indipendenti viene disincentivata con minacce e arresti. Contestualmente, è cresciuta l’attenzione dei leader di Pechino per l’integrità ideologica. Nell’aprile 2023, centinaia di capi di villaggio per la prima volta hanno partecipato in presenza a un corso di formazione organizzato nella capitale dalla Scuola centrale del partito. Decine di migliaia di quadri rurali hanno assistito alle lezioni sul “pensiero di Xi Jinping” tramite collegamento video.

Va detto che attribuire l’estinzione della “democrazia di base” a un unico fattore può essere fuorviante. Come spiega a Gariwo Wang Zhengxu, politologo della Zhejiang University e autore di numerosi studi sul tema, negli ultimi anni lo stato è subentrato per risolvere questioni critiche come la fornitura di beni pubblici, l’emigrazione rurale e la povertà assoluta. Problematiche che spesso richiedono risorse e capacità superiori a quanto dispongono gli abitanti dei villaggi auto-organizzati. “Lo ha fatto, ad esempio, mandando personale governativo a vivere e lavorare nei villaggi, promuovendo legami più forti tra le comunità rurali e l’economia urbana, e migliorando significativamente le condizioni socioeconomiche delle campagne”, spiega l’esperto, aggiungendo che la “l’eradicazione della povertà”, attuata tra il 2012 e il 2022, “è stata in gran parte realizzata prendendo capitale economico e sociale moderno dalle città e all’interno dello stato per consentire cambiamenti nei villaggi”.

Inoltre, i progressi tecnologici hanno trasformato la governance rurale. “Molti affari dei villaggi sono ora gestiti tramite piattaforme digitali, come le app mobili, che consentono agli abitanti di esprimere le proprie preferenze e partecipare al processo decisionale in modo più efficiente” – osserva il professore – “tutto ciò ha ridotto il ruolo strumentale delle elezioni, che sono state sostituite con sistemi di raccolta delle informazioni e consultazione più snelli e inclusivi”.

All’origine di tutto c’è la convinzione che, in Cina, lo stato debba assumere molti ruoli che in Occidente sono generalmente lasciati alle ONG o alla cosiddetta società civile. “Si tratta di due diverse filosofie politiche” – rimarca Wang – “in Occidente, la visione generale è più orientata verso un ‘governo limitato’, che non ha né l’intenzione né la capacità di occuparsi di molte questioni sociali, come l’istruzione rurale e la lotta alla povertà. Le ONG emergono per compensare questo vuoto”. Nella Repubblica popolare, invece, ci si aspetta che il governo si occupi più o meno di tutto: “Non sto dicendo che lo stato fa sempre le cose per bene e nel modo giusto” – avverte l’esperto – “semplicemente questo è il tipo di filosofia politica in Cina: per affrontare i problemi, è necessario migliorare le capacità del governo”.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su GariwoMag]