Subito dopo la raffica di esplosioni, gli esperti internazionali hanno indicato un’azienda taiwanese come il probabile produttore dei cercapersone. Ma Gold Apollo ha puntato il dito verso l’Ungheria
Un foglio di carta A4 appeso a una porta di vetro. Sopra la scritta: Bac Consulting, il nome dell’azienda registrata in Ungheria e indicata come la produttrice dei cercapersone esplosi martedì tra Libano e Siria. È quella la sede legale della società ma dietro la porta di vetro, in un sobborgo residenziale di Budapest, Reuters non ha però trovato nessuno. L’amministratrice delegata, Cristiana Barsony-Arcidiacono, segnala sul suo profilo LinkedIn di aver lavorato anche per Unesco. Per ora, non si sa di più, in questo esplosivo gioco di scatole cinesi. O per l’esattezza taiwanesi. Subito dopo la raffica di esplosioni, gli esperti internazionali hanno indicato in modo pressoché unanime un’azienda dell’isola come il probabile produttore dei cercapersone: Gold Apollo. Fondata nel 1995, quando si era nel pieno del boom tecnologico dell’isola. Ieri mattina, i giornalisti locali sono piombati al suo quartier generale, nel parco commerciale di Nuova Taipei. Insieme a loro, sono arrivati anche degli agenti di polizia.
A entrambi, il fondatore e presidente Hsu Ching-kuang, ha dato la stessa versione: “Quei cercapersone non sono nostri. Hanno solo appiccicato il marchio della nostra azienda”. È stato proprio Hsu a fare il nome della Bac. Secondo la sua versione, Gold Apollo avrebbe accettato circa tre anni fa di lasciare che l’azienda registrata in Ungheria vendesse i propri prodotti utilizzando il suo marchio. Un affare win-win. Per la Bac, significava sfruttare la reputazione di una realtà molto conosciuta sul mercato dei cercapersone. Gold Apollo riceveva invece una parte dei profitti, in un settore rimasto ormai una piccola nicchia dopo la rivoluzione digitale del nuovo millennio. Non si tratta di una pratica inusuale, nel multiforme settore tecnologico taiwanese, dove spesso i complicati giri di licenze e appalti rendono difficile risalire al produttore materiale.
Hsu ha fatto menzione anche di uno “strano incidente”, menzionando un episodio in cui una banca di Taiwan ha ritardato un bonifico bancario della Bac, la cui provenienza sarebbe stata da un’area imprecisata del Medio oriente.
Per ora, sia l’azienda sia il governo taiwanese smentiscono qualsiasi legame diretto tra Gold Apollo e il Libano, tantomeno con Hezbollah. Il ministero degli Affari Economici di Taiwan, che supervisiona il commercio delle aziende dell’isola, ha dichiarato che dai suoi registri non risultano “esportazioni dirette in Libano” dei cercapersone incriminati. Negli ultimi due anni ne sarebbero stati spediti all’estero circa 260 mila, soprattutto in Europa e Nord America. Tesi confermata dal ministero degli Esteri, che aggiunge qualche dettaglio tecnico che rafforza l’ipotesi della manomissione e dell’inserimento di esplosivo lungo la catena di approvvigionamento: “La struttura di questo cercapersone include un’antenna ricevente in comunicazione, un chip a microprocessore, un decodificatore di comunicazione, una scheda madre, un display e una batteria alcalina secca con una piccola capacità di corrente di una piccola capacità di corrente e una asciuga batteria alcalina con una piccola capacità di corrente”. Per poi concludere: “Non vi è alcuna possibilità di morte e lesioni causate da un’esplosione”.
Certo, restano diversi punti da chiarire. Fino alla serata di martedì, il modello incriminato appariva tra sul sito web di Gold Apollo, con la pagina poi rimossa nelle prime ore di ieri. Punti che Hsu sarà presumibilmente chiamato a chiarire con le autorità, visto che è stata aperta un’indagine. Se confermata la sua versione, resta da capire dove e in che modo i cercapersone siano stati manomessi. Con inquietanti interrogativi sul possibile coinvolgimento di fornitori o mediatori. A Taiwan, la vicenda fa discutere per due ragioni. La prima è politica, col governo che ha condannato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre ma è rimasto in silenzio sulle vittime di Gaza, in tradizionale ossequio alla linea Usa. La seconda lambisce industria e sicurezza, con la difficoltà nel controllare la destinazione dei propri prodotti o delle proprie etichette. Non è una novità, visto che secondo diverse inchieste i chip taiwanesi continuano in qualche modo ad arrivare anche in Russia.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.