La censura è uno degli argomenti più delicati della Cina contemporane. L’atteggiamento delle autorità cinesi nei confronti di una mostra di Andy Warhol ha riportato al centro l’argomento. Mentre il Mao pop "non funziona più", l’accesso a Internet dalla Cina continentale si fa sempre più difficile. Né Mao, né Lin Biao. Ad accomunare i due antichi fratelli-coltelli della Cina rivoluzionaria non è uno slogan lanciato dal recente congresso del Partito, bensì la solerte censura cinese. Due storie parallele raccontate dal South China Morning Post.
La grande mostra itinerante di Andy Warhol che sbarcherà oltre Muraglia nel 2013 non potrà infatti esibire le famose e iconiche tele che raffigurano il grande timoniere in versione pop. L’ha confermato al quotidiano di Hong Kong un funzionario che preferisce restare anonimo, secondo il quale le tele sono state rifiutate dal ministero della Cultura.
“Hanno detto che Mao non funziona – ha raccontato Eric Shiner, direttore del museo Andy Warhol di Pittsburgh – è una delusione, perché la sua immagine è terribilmente mainstream nell’arte contemporanea cinese.” Per i fan della pop art c’è comunque una via d’uscita (letteralmente): basta volare a Hong Kong, dove la mostra è appena iniziata, e il Mao Zedong multicolore apparirà nel suo splendore.
Quanto a Lin Biao, il regista Xie Fei ha denunciato in una lettera aperta pubblicata sul suo account Weibo che la censura ha giudicato “problematico” un film a cui lui ha lavorato come consulente artistico. Il motivo? “Mette in scena personaggi gay e ha scene che mostrano Lin Liguo, il figlio dell’ex-leader comunista caduto in disgrazia Lin Biao”, già braccio destro proprio di Mao.
Il regista, che ha già raccolto la solidarietà di molti colleghi cinesi, denuncia i “divieti non scritti” contro “i fantasmi, l’omosessualità, i viaggi nel tempo, l’adulterio e gli incidenti politici sensibili”. Il problema – insiste Xie – sta nel fatto che in Cina non esiste un vero e proprio sistema di classificazione dei film: esistono quindi regole non scritte, arbitrarie, “a dimostrare che il sistema di censura, che da tempo vorremmo che finisse, è disciplinato non dalla legge, ma da uomini”.
Migliore sintesi non potrebbe essere fatta: la Cina contemporanea, non ancora Stato di diritto, sopperisce all’assenza di regole certe con la discrezionalità di singoli uffici o, addirittura, funzionari. Il che, detto in parole povere, significa arbitrio. Spesso e volentieri.
È più difficile controllare i social media, si sa, anche se Doug Young, ex giornalista finanziario che ora insegna giornalismo all’università Fudan di Shanghai, scrive in un suo recente libro che la presenza del Partito è pervasiva anche in Rete: “vuole essere in grado di controllare il tono delle discussioni, la velocità delle discussioni, l’oggetto delle discussioni”.
Young rivela un automatismo tecnologico già noto da tempo: “I blogger dicono che se scrivono qualcosa su democrazia, proteste o movimenti di opposizione, il sistema di keywords avvisa automaticamente la polizia internet”.
Di recente, il controllo si è fatto più rigido anche sulle Vpn, il sistema di aggiramento del “Grande Firewall” cinese attraverso proxy server che va per la maggiore in Cina. Per settimane è stato quasi impossibile connettersi.
La rivista Geek spiega che “il Grande Firewall ha avuto un aggiornamento. La nuova tecnologia è ora in grado di conoscere i collegamenti specifici, compresi quelli criptati, e scoprire se sono davvero Vpn utilizzate per aggirare le restrizioni. Quando tale connessione viene rilevata, viene bloccata e taglia l’utente”.
Sul Global Times è apparso un articolo due volte paradossale, secondo cui alcuni utenti stranieri si sarebbero proprio rivolti alle autorità cinesi per chiedere come mai la loro Vpn non funzionasse più (primo paradosso). Il giornale spiega che la Vpn è vietata in Cina, a meno che l’azienda fornitrice non sia registrata proprio in Cina (secondo paradosso).
Qualcuno ricorderà che qualche anno fa si scoprì che la bandiera del Tibet indipendente era prodotta da un’azienda cinese: non è quindi escluso che prima o poi si potrà registrare in Cina un’azienda che offre tecnologie per aggirare la censura cinese.
[Scritto per Lettera43; foto credits: yalelawtech.com]