Caratteri Cinesi – La dignità dei giornalisti

In by Simone

Wang Keqin ci racconta l’etica e la responsabilità del giornalismo. E quanto le popolazioni locali possano fare affidamento solo sui media per denunciare i sorprusi e gli abusi d’ufficio dei funzionati locali.
Essere giornalisti significa andare alla ricerca del vero. Questa ricerca non comporta solo l’ascolto e l’aiuto di persone in cerca di giustizia, ma anche il confronto con le suppliche di esseri umani privati della dignità, persone che prima ancora di richiedere riparazione a un qualsiasi torto subito invocano di non essere costrette all’umiliazione.
In una riflessione sul senso della dignità, Wang Keqin mette in evidenza uno dei mali della società cinese, che anticipa ogni divergenza di opinione sui grandi temi della democrazia, del monopartitismo o dello sviluppo, e che punta dritto a un problema connaturato al vivere in qualsiasi società: il rapporto tra chi detiene il potere e chi è costretto a subirlo.
[MCr]

Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, i miei occhi rivedono gli sguardi di una folla supplicante e inginocchiata a terra, e scene che queste persone hanno vissuto sulla loro pelle e che non potranno mai dimenticare.

Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, nelle mie orecchie risuonano le voci di molti petizionisti e di persone venute da me in cerca di aiuto: «Vogliamo solo che il governo ci tratti come delle persone».

Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, anche nel cervello riemergono situazioni imbarazzanti, ineluttabili e umilianti, attraverso cui io e molti altri miei compagni giornalisti siamo dovuti passare.

E tutte queste scene di sofferenza insopportabile si sono susseguite fino a oggi e continuano ad aumentare ininterrottamente.

[…]

Il 1 ottobre del 2001 mi trovavo nella regione di Dingxi, nel Gansu, per realizzare delle interviste. Rimasi per sette giorni e sette notti nella frazione di Baozi, nella Contea di Min, il luogo più penoso che esista al mondo.

Quando camminavo a piedi su un percorso serpeggiante di montagna, da una curva potevano sempre fuoriuscire una donna o un vecchio contadino che con mani tremanti estraevano dei formulari di lamentela spiegazzati.

Mi pregavano di “schierarmi con la giustizia” e anche se in realtà ero solo un comune giornalista mi trattavano come fossi un “funzionario incorruttibile e senza macchia”.

Non appena entravo nel cortile interno di una casa contadina, subito gli abitanti del villaggio cominciavano ad arrivare in successione; poco importava se il tetto era basso o il cortile angusto, le persone si affollavano ovunque per “denunciare un sopruso”.

Che fosse giorno o notte fonda trovavo sempre qualcuno ad aspettare che mi svegliassi da un sonnellino di tre o quattro ore. Il mio animo si faceva sempre più pesante.

La mattina del 3 ottobre, alle undici, stavo percorrendo una stradina di montagna per raggiungere un altro villaggio, chiamato Zina, quando vidi a cento metri di distanza una folla di persone prostrarsi sul pendio all’ingresso del villaggio.

A chinarsi non c’erano solo dei giovani contadini nel pieno delle forze, ma anche anziani dai capelli bianchi e grigi e bambini nell’età dell’innocenza. Quando arrivai davanti a loro gli abitanti del villaggio iniziarono a gridare: «Funzionario incorruttibile e senza macchia, misericordioso Bodhisattva, alto dirigente, siamo trattati davvero in modo ingiusto!».

In seguito alle mie domande scoprii che in questo posto sperduto tra grandi montagne e profondi burroni molte persone temevano di subire violenze dai quadri locali e di essere cacciati dal loro villaggio perché non erano in grado di pagare delle multe.

Quadri di diverso livello abusavano a loro piacimento della popolazione, la violenza sui contadini era la norma e molti uomini venivano etichettati senza ragione come “malfattori”.

Una signora mi disse piangendo: «Se un giovane in piene forze come mio figlio viene condannato pubblicamente, quale donna potrà mai sposarsi con lui?». […]

Questa è solo una delle innumerevoli storie a cui ho assistito in vent’anni di carriera e che hanno a che fare con la “dignità”.

A nove anni di distanza questi fenomeni non sono tutt’altro che diminuiti, hanno semplicemente assunto nuove forme per manifestarsi di volta in volta.
La grande maggioranza dei petizionisti provenienti da tutta la Cina sono come quelle persone che stringevano in mano un formulario di lamentele.

All’epoca del mio reportage in Gansu i contadini riponevano tutte le loro speranze nei giornalisti e nei media. Anche oggi i giornalisti sono i principali depositari delle speranze di un numero illimitato di petizionisti.

Molti petizionisti, appena messo fuori il naso dal mio ufficio, possono essere ancora fermate dagli amministratori locali. Decine di tassisti provenienti da ogni parte del paese sono stati arrestati una volta tornati a casa solo per essere stati ricevuti nel mio ufficio.

Senza tenere conto che nell’universo dei petizionisti i tassisti non sono che un piccolo gruppo se paragonati ai contadini privati della loro terra o alle persone costrette ad abbandonare le proprie case.

Post tradotto da Mauro Crocenzi. Continua a leggerlo su Caratteri Cinesi.

* Wang Keqin è la figura più rappresentativa del giornalismo cinese. Sue le inchieste sulle epidemie di aids, sulle ricostruzioni scadenti seguite al terremoto del Sichuan. Fino a quella sulla compravendita di vaccini dannosi che lo porta a lasciare il giornale per cui lavorava.