Caratteri Cinesi – Hotel Baiyin #2

In by Simone

Seconda parte del racconto autobiografico di Zhang Weiwei, protagonista della scena rock cinese con con il gruppo degli Ye haizi (Ragazzi selvaggi). Il sodalizio con Guo Long e la conquista di Pechino. In Occidente, alcune figure illustri hanno scritto che “non importa come la vita viene spesa, perché la vita è comunque rimpianto”. Ma nel film rivoluzionario Il dirupo rosso (Hong yan), la storia di Testolina di rapa rivela che “non importa come la vita viene spesa, la vita è sempre felicità” [riferimento è a un romanzo pubblicato all’inizio degli anni Sessanta da cui sono stati tratti adattamenti cinematografici e televisivi, ndr].

Diciotto anni fa, all’hotel Baiyin, ai bordi del Deserto del Gobi, due ragazzi hanno dato il via alla loro carriera musicale.

La prima volta che mi sono incontrato con Guo Long era l’autunno del 1989. Stavo per iniziare le scuole medie, così da casa presi venticinque centesimi per andarmi a comprare un set di squadre alla libreria Xinhua. Mentre attraversavo un boschetto di olivelli di Boemia spuntarono fuori all’improvviso alcune persone con indosso dei gilet neri che senza alcuna pietà mi portarono via i miei venticinque centesimi. Guo Long era uno di loro.
 
La scuola iniziò e scoprii che anche quei ragazzini erano nella mia stessa scuola. Dopo un semestre di puro terrore, io e Guo Long diventammo amici.
Eravamo tutti e due nati nel 1976. Era l’anno in cui morì –nel mese di gennaio- l’onorabile premier Zhou Enlai. Dopo un lutto che unì la nazione intera, la stessa estate nacque Guo Long, che mi precedette di un po’. Subito dopo sarebbe morto il comandante in capo Zhu De, ci sarebbe stato il devastante terremoto di Tangshan e sarebbe morto il presidente Mao. I canti funebri di commemorazione si succedevano uno dopo l’altro e nubi fosche avvolsero la divina patria. Io, invece, nascevo. Questo breve scarto di sei mesi avrebbe fatto sì che successivamente, in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo, la mia espressione fosse sempre un po’ più amareggiata di quella di Guo Long.

Vivevamo in due corti staccate, destinate alle famiglie che lavoravano in fabbrica. Tutti e due eravamo figli cadetti. Il padre di Guo Long era ingegnere, il mio un maestro di musica. Da piccoli, mentre lui si metteva sul letto a fantasticare con il suo mondo di fantascienza, io poco distante contavo le note di un pentagramma.

 
Durante il giorno, tutti gli adulti erano in fabbrica e tutta Baiyin era così tranquilla da sembrare una città fantasma. A ore regolari l’altoparlante della fabbrica scandiva le chiamate e il suono giungeva da lontano fino alle case. Quel suono per noi era come un richiamo religioso. Per noi la fabbrica era davvero il centro del mondo. Nel dedalo delle piccole e grandi officine, macchinari enormi rantolavano gettando a ritmo regolare gas fitto, mentre per strada chi finiva il turno giornaliero incrociava il passaggio di chi attaccava con il turno di notte. A Baiyin ogni cosa si ripeteva quietamente, come se potesse durare in eterno.

Le note sul pentagramma e gli ufo della fantascienza non facevano parte di quel mondo. Una volta camminammo fino al deserto per guardare di fuori. Su quella sconfinata landa selvaggia il vento soffiava sull’erba selvatica e alcune lucertole schizzavano via veloci. Su quella terra non c’era niente.

 
Dopo esserci conosciuti, Io e Guo Long iniziammo a fare comunella e ben presto divenimmo degli studenti problematici. Facevamo spesso sega insieme e passavamo interi pomeriggi nel padiglione esterno del cortile della sua famiglia. Lì imparammo a fumare e diventammo solennemente fratelli di sangue. Scherzavamo e ridevamo tutto il tempo e aspettavamo che finivano le lezioni per riunirci alla classe dei nostri compagni e tornare a casa.

In quel padiglione conoscemmo anche una persona che per tre anni aveva studiato a fondo la chitarra mentre era in prigione; era proprio il leader del gruppo dell’hotel Baiyin, quello che suonava la tastiera elettronica. In passato era stato una figura leggendaria della città, che portava pantaloni militari con sopra una fascia rossa annodata e passava con la sua bicicletta strillando per le strade e i vicoli. All’inizio degli anni Ottanta, in seguito al risaputo giro di vite, fu spedito in galera dal governo per alcuni anni. In prigione imparò a suonare a chitarra e iniziò a studiare duramente i movimenti della mano sulla tastiera, intraprendendo la carriera musicale.

Conosceva molte canzoni famose tra i detenuti. I testi erano lunghi, il cantato veniva da lontano ed era molto toccante. Lui diceva che si trattava di vecchi canti del Nord-Ovest, che venivano tramandati da molti anni. Nelle notti solitarie in prigione, solo dopo aver cantato queste canzoni si poteva dormire. Innumerevoli melodie cantate in coro da gole corrose da fumo e alcool si liberavano nell’aria da dietro le sbarre per fluttuare nei cortili deserti. Era uno scenario che cambiò del tutto la mia attitudine verso la musica, che sin da piccolo mi era stata imposta da mio padre con una bacchetta di bambù.

 
Da allora la musica fu il nostro amore più incondizionato. Adoravamo il nostro leader come fosse un maestro, durante il giorno gli stavamo sempre attaccati al culo, servendogli il tè e offrendogli le sigarette. Fu così che lo seguimmo anche quando entrò nell’hotel Baiyin.

Nel momento in cui imbracciammo per la prima volta una chitarra nel padiglione esterno del cortile, una nuova era stava irrompendo anche nella nostra cittadina. Fu un istante, come finire in un trita carta: in un batter di ciglia il piano del socialismo nel deserto del Gobi fu screditato. Parrucchieri e negozi di dischi spuntarono come funghi, in ogni strada ne apriva uno. La musica proveniente dal mondo di fuori avvolse lentamente tutta la città, sommergendo il richiamo che usciva dagli altoparlanti delle fabbriche e buttando giù dal letto con il suo rumore il sogno collettivista che aveva accompagnato per decenni il sonno della piccola Baiyin.

Il vento del Gobi spinse i granelli di sabbia contro le porte e le finestre di tutte le case; i pionieri, i nostri padri, non riuscendo a venire a capo di questi cambiamenti, persero il sonno notturno. Noi invece eravamo sulla strada, fuori dalle finestre cantavamo canzoni fresche fresche, lasciando i binari che ci avevano assegnato per andare via con le nostre gambe.

L’hotel Baiyin si ergeva proprio sulla crepa provocata dall’avvicendamento e noi roteavamo nei fasci di luce intermittenti. Le nostre famiglie pensavano che stessimo solo perdendo tempo, non immaginavano che in realtà ci stavamo allontanando sempre di più da lì e che alla fine saremmo usciti dalla loro visuale.

In quella nostalgica notte senza luce sul Gobi, eravamo seduti tutti sulla strada davanti all’ingresso dell’hotel Baiyin, a suonare la chitarra, a bere alcool e a cantare canzoni. La fitta nebbia ci avvolgeva tutta come fosse l’ultima boccata di fumo denso esalata da un luogo così lontano da appartenere a un’altra era. Eravamo tutti un po’ ubriachi e piano piano, guardandoci intorno, ogni cosa si faceva sempre più indistinta.

C’era un ubriaco, che ripeteva a tutti di volere andare via e lasciare per sempre Baiyin. Gli altri lo salutavano freddamente, lasciandolo a quei commiati così sofferti, poiché ogni volta che si ubriacava ripeteva sempre quel gioco fatto di addii solenni. Tutti ormai si erano abituati e sapevano che al risveglio del giorno dopo lui ci sarebbe stato ancora, perché dove vuoi che sarebbe andato.

Quella persona ero io. È come quando l’inverno di due anni fa andavo dicendo a chiunque che dopo un mese avrei pubblicato questo album; è nella mia natura, per cui è davvero difficile da cambiare. Ma alla fine l’album è stato pubblicato e ugualmente, alla fine, ce ne andammo anche da Baiyin.
 
Alla fine degli anni Novanta, Pechino era tornata a essere un mondo dorato dove convergevano tantissime persone da ogni luogo. Ci arrivavano in bicicletta o sui bus sempre in piena attività. Arrivavano dritti in quella città antica, così occupata da essere sempre illuminata a giorno e sempre paralizzata dal traffico.
In quegli anni, giovani riempiti da ogni tipo di ideale irrompevano nella capitale per metterci radici e germogliare. Tra loro c’eravamo anche noi.

Nel 2009, io e Guo Long vivevamo nella zona del ponte di Dongzhimen, in due diversi complessi residenziali. Dopo dieci anni di vita a Pechino, finalmente stavamo iniziando a mettere mano a questo album. Normalmente, oltre a fare le prove, Guo Long da una parte del ponte suonava la fisarmonica per i suoi quattro gatti, mentre io, dall’altra parte del ponte imbracciavo la chitarra e scrivevo le canzoni.

Prima ho registrato le melodie già pronte, poi le ho riascoltate a ripetizione una dopo l’altra e sono entrato in quelle melodie mai easauste, aspettando che le parole uscissero fuori da sole. Piano piano non ho più dato peso alle melodie, il tempo si stava incredibilmente diradando. Mi sembrava che se non avessi fatto un po’ di attenzione sarei potuto scomparire da questa città assieme alla mia stanza.

Mi è tornato in mente una scena di quando ero piccolo. Allora, il martedì pomeriggio non facevamo lezione a scuola; i miei venivano a casa per la pausa pranzo e dopo avermi chiuso a chiave in camera tornavano al lavoro. Per tutto il pomeriggio, in camera, non si sentiva volare un filo d’aria, vedevo la polvere galleggiare avanti e indietro attraverso i raggi del sole e l’eco dell’altoparlante della fabbrica da lontano lambiva la stanza. Restavo così in camera, seduto, senza pensare a niente e senza fare niente. Due donne sedevano all’ombra fuori dalla finestra, vendevano verdure e aspettavano la fine del turno nella fabbrica. Una delle due diceva all’altra: «Quest’anno le patate sono davvero farinose, se ci metti un po’ di zucchero sembrano mele.»

Già, le patate quell’anno erano davvero farinose. Proprio come noi in quegli anni, che, seduti sulle trame che il destino ci aveva preparato, guardavamo il sipario aprirsi lentamente. Dal treno che oltrepassava il deserto sul Deserto del Gobi a quando abbiamo percorso strade di terre lontane con gli strumenti in spalla, quanto abbiamo sperato di avere un trascorso caldo e pieno, ma abbiamo solo questa storia da raccontare.

 
Quando quei pionieri che erano i nostri genitori avevano raggiunto Baiyin, seppellirono la loro gioventù sotto il Gobi. La cittadina di Baiyin ha svuotato se stessa fino a esaurire la sua missione. Alla fine rimane solo un monumento alla memoria diroccato, nel centro della città. Oggi, anche quei ragazzi vestiti a festa dell’hotel Baiyin sono stati cancellati dal vento che soffia sul Gobi. Passano silenziosi sotto al monumento alla memoria. C’è una stele da cui si ergono solennemente due giovani levando un grande minerale.
 
Ripensando a quel pezzo desolato di Gobi, ho scritto:
 
Verso sinistra e verso destra, aquiloni e uccelli in volo
In piedi su terra selvaggia a guardare il cielo imbrunire
Mi lasci supporre, supporre che possa esserci una ricompensa
una ricompensa che inverta il corso delle lancette sul mio orologio.
 
Ripensando al fumo denso nella ciminiera della fonderia, ho scritto:
 
Cupa notte e chiaro giorno, la nebbia densa avvolge di già
l’isola solitaria di nome Hotel Baiyin
Proprio ora ci sono, laggiù corro veloce
corro veloce su quel pezzo di blu sconosciuto e irraggiungibile.
 
[Le due composizioni sono due delle strofe di Gli orfani della città di nebbia (Wu dou gu’er), la canzone di apertura dell’album Hotel Baiyin (Baiyin Fandian). Il titolo è tratto dal nome della versione cinese del celebre romanzo di Charles Dickens, Oliver Twist] [L’intero pezzo è su Caratteri Cinesi. Traduzione di Mauro Crocenzi]

*Zhang Weiwei è, assieme a Guo Long, iniziatore di un genere musicale, il neofolk cinese (minyao xin minyao), che ha caratterizzato la scena musicale indipendente soprattutto a partire dai primi anni Duemila. Il minyao è fortemente legato al fenomeno delle migrazioni dalle povere province del Nord Ovest alle grandi metropoli, su tutte Pechino, e mira al recupero della memoria attraverso il ricorso a immagini, strumenti e melodie tradizionali.