L’esecito birmano celebra sé stesso, per la prima volta alla presenza di Aung San Suu Kyi. Il capo delle Forze armate rivendica il ruolo dei militari nella politica del Paese, alle prese con le violenze contro i musulmani. Un sentimento anti-islamico che negli anni anche i militari hanno contribuito ad alimentare.
Tatmadaw continuerà ad avere un ruolo nella politica birmana. Tatmadaw sono le forze armate, i militari che sino a un anno e mezzo fa erano al potere nel Paese dei pavoni con una giunta di generali che ha lasciato il passo a un governo civile, guidato oggi dal generale in congedo Thein Sein.
A ricordare il rinnovato impegno dei militari è stato il capo delle Forze armate, generale Min Aung Hlaing, intervenuto alla parata per il 68esimo ‘Giorno della resistenza (leggi Giorno delle Forze armte) alla cui cerimonia ha partecipato per la prima volta anche la leader dell’opposizione democratica Aung San Suu Kyi. Sotto gli occhi della premio Nobel per la Pace sono sfilati 6mila soldati, caccia, tank e artiglieria.
Min Aung Hlaing ha rimarcato l’impegno dei militari per proteggere la Costituzione del 2008, la stessa scritta dalla giunta, che garantisce loro il 25 per cento dei seggi in Parlamento e che fu approvata con un referendum popolare portato avanti sebbene aree del Paese fossero state investite proprio in quei giorni dal ciclone Nargis, che fece almeno 130mila morti.
Ma proprio sulla revisione della Carta si è aperta nelle scorse settimane un’ipotesi di revisione con l’istituzione di una commissione incaricata di discutere di eventuali emendamenti, forse anche quelli che potrebbero permettere ad Aung San Suu Kyi di correre per la presidenza, ora possibilità preclusa dagli articoli che vietano la guida del Paese a chi è coniuge o genitore di stranieri.
I militari fanno ritorno sulla scena proprio nei giorni in cui nella Birmania centrale divampano le violenze che hanno per bersaglio la comunità musulmana. I morti sono almeno 144. Il presidente Thein Sei ha dichiarato lo Stato di emergenza e mandato le forze armate a ristabilire l’ordine, sebbene nei giorni scorsi testimonianze hanno evidenziato come le forze di sicurezza abbiano fatto poco per fermare la furia dei gruppi anti-islamici. Epicentro delle violenze, che hanno riportato alla mente gli scontri dell’anno scorso contro la minoranza musulmana dei rohingya, è stata la città di Meikthila, 150 chilometri circa da Mandalay.
Le ricostruzioni parlano di un diverbio tra un orefice musulmano e un cliente buddhista, degenerata in rissa e poi divampata in attacchi a moschee, abitazioni e negozi in diversi distretti. Uno degli aspetti che ritorna più spesso in tutta la vicenda è l’attivismo di un gruppo chiama 969, un riferimento alla tradizione buddhista.
Personaggio di spicco della campagna che esorta al boicottaggio dei musulmani è il monaco Wirathu, già noto per il suo coinvolgimento nelle violenze anti-islamiche di Mandalay del 2003. Non a caso nelle foto che circolano i rete monaci in tuniche zafferano sono spesso in mezzo agli scontri, aizzandoli e prendendovi parte. I discorsi del monaco sono caratterizzati anche da una paranoia e un complottismo che considera i musulmani finanziati dai Paesi del Medio Oriente per surclassare i buddhisti.
Come ricorda Aung Zaw in un commento sul magazine Irrawaddy, sin dall’indipendenza nel 1948 e dalla presa del potere dei militari nel 1962 i non buddhisti hanno avuto vita difficile nel Paese. Gli stessi militari hanno cercato di presentare sé stessi come ferventi buddhisti e la religione ha rappresentato uno dei simboli di unità dello Stato, che l’esercito ancora ieri ha detto di voler preservare.
Per questo, scrive Aung Zaw, il risultato è che gli “estremisti buddhisti” ora sono dappertutto: tra i monaci, in parlamento, in divisa. “È un salto indietro nei giorni neri del governo militare e non qualcosa che si potrà esorcizzare facilmente.”
[Foto credit: irrawaddy.org]