Continuano le prove generali di disgelo tra Birmania e Stati Uniti. La visita del segretario di Stato americano segna una pietra miliare nei rapporti tra i due Paesi, al centro di una lenta manovra di avvicinamento osservata a distanza da una Cina piuttosto infastidita.
Per iniziare gli Stati Uniti hanno messo sul tavolo 1,2 milioni di dollari in aiuti alla società civile birmana. Ma se il processo di riforma dovesse andare avanti il governo di Washington è pronto a sostenerlo.
L’isolamento internazionale è stato rotto il primo dicembre dalla visita di Hillary Clinton nella capitale Naypyidaw, la prima di un segretario di Stato americano nel Paese dei pavoni in oltre mezzo secolo, e dal successivo incontro con la leader dell’opposizione democratica Aung San Suu Kyi.
“Ci impegneremo per dimostrare le nostre buone intenzioni al popolo birmano”, ha detto il numero uno della diplomazia Usa al termine della tre giorni di visita e dell’incontro con il presidente Thein Sein, primo capo di Stato civile dopo oltre cinquant’anni di potere dei generali.
Dalle elezioni a novembre dello scorso anno la Birmania ha intrapreso un lento percorso di apertura. La giunta militare è stata sciolta; la Lega nazionale per la democrazia e il partito di Suu Kyi, agli arresti domiciliari fino a dodici mesi fa, è potuto tornare nella legalità, all’indomani dell’annuncio del presidente Usa, Barack Obama, del viaggio della signora Clinton.
A essere cambiato è anche l’atteggiamento verso Washington, senza più il timore di un’invasione statunitense, che nel 2005 spinse il regime a spostare la capitale da Rangoon a Naypyidaw, nel cuore della giungla, e nel 2008 a rifiutare i soccorsi alle vittime del ciclone Nargis che si stima abbia fatto oltre 130mila morti e dispersi.
La risposta del governo birmano agli impegni presi dagli Usa è stato un decreto con cui il presidente autorizzava le manifestazioni pacifiche, seppur con diverse limitazioni per i dimostranti. Pochi giorni dopo il regime ha raggiunto un cessate-il-fuoco con l’Esercito meridionale dello Stato Shan, una delle milizie etniche che si oppone al governo centrale, preludio di trattative verso una soluzione pacifica al conflitto.
Ai progressi democratici è legata anche la revoca delle sanzioni internazionali e dell’embargo deciso nel 1997 dall’allora presidente statunitense Bill Clinton. Un rilassamento delle sanzioni è quanto auspicato in un’editoriale del cinese Global Times. A lungo Pechino è stato il più forte alleato dei birmani. Ora “Usa e Cina sono in competizione per l’influenza sul Paese” e allargando l’orizzonte “per conquistare il cuore e le menti delle altre nazioni asiatiche”, ha scritto il quotidiano legato al Partito comunista.
Tuttavia, ha aggiunto, Pechino non ha ancora la forza di esportare i propri valori, “ma ciò non vuol dire che nella regione prevarranno quelli americani”. Non a caso alla vigilia del viaggio della signora Clinton, il vicepresidente, e futuro capo di Stato cinese, Xi Jinping, ha incontrato il capo delle Forze armate birmane, Min Aung Hlaing, perché nonostante i progressi i generali hanno ancora voce in capitolo.
A rompere l’idillio del tour birmano di Clinton è stata l’agenda diplomatica di Thein Sein, che a poche ore dal riavvicinamento di portata storica con Washington , incontrava il primo ministro bielorusso, Mikhail Myasnikovich, rappresentate di un Paese sottoposto a sanzioni Usa, che l’ex segretario di Stato americano, Condoleeza Rice, aveva definito “l’ultima dittatura d’Europa”, giudizio confermato lo scorso dicembre dalla repressione delle proteste contro la rielezione, la quarta consecutiva macchiata da brogli, del presidente Alexander Lukashenko.
Oltre alla scarcerazione degli oltre 1.700 prigionieri che non hanno beneficiato dell’amnistia dello scorso mese, nell’agenda dei colloqui con Clinton è stata sollevata anche la questione Corea del Nord. Gli Usa premono affinché si allenti la cooperazione tra i due regimi.
Come scrive Donald Kirk sull’Asia Times la ripresa dei colloqui a sei sul nucleare con gli inviati di Kim Jong-il potrebbe essere il prossimo passo della strategia diplomatica statunitense in Oriente. In quest’ottica Washington preme per interrompere il flusso di tecnologia nucleare dai nordcoreani ai birmani, per privare Pyongyang di un ulteriore acquirente dopo la caduta del raìs libico, Muammar Gheddafi.
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