Big is beautiful. La Cina sfida gli Usa

In by Simone

Big is beautiful, sembra il nuovo motto di Pechino. Il ministero dell’Industria cinese ha infatti dichiarato il suo obiettivo per i prossimi anni: creare gigantesche imprese multinazionali capaci di competere a livello globale. Tutto. Il Dragone vuole trasformarsi da “fabbrica del mondo” di merci di bassa qualità a colosso dell’innovazione. Lo richiede un mondo che è cambiato.
“Grande” significa quindi anche “qualitativo”. Il boom trentennale cinese, lo sanno anche i sassi, si è basato sull’esportazione di merci a basso costo che hanno inondato i mercati del mondo. Fondamentale, in questo senso, è stata una sorta di divisione del lavoro Cina-Usa (e Occidente in genere) che il sociologo filippino Walden Bello ha argutamente definito chain-gang economics: economia dei galeotti incatenati. Da un lato gli statunitensi che consumano, dall’altro i cinesi che producono a basso costo. Gli Usa si indebitano e la Cina compra il loro debito, permettendo al ciclo di riprodursi. Se uno dei due galeotti incatenati cade, si tira dietro l’altro: creditore e debitore vivono in osmosi.

Ne abbiamo goduto tutti in quanto consumatori, perché le merci cinesi a basso costo hanno svolto un ruolo disinflattivo: anche se i nostri salari restavano bassi, potevamo comprare. Ci abbiamo perso tutti in quanto produttori, perché le manifatture si trasferivano in Cina – la “fabbrica del mondo” – e noi dovevamo inventarci un nuovo mestiere.

Ora, di fronte alla crisi dell’occupazione, uno dei due galeotti prova a riprendersi le manifatture: l’America di Obama. Il contesto però è cambiato e quello che conta oggi è soprattutto l’innovazione, cioè la capacità di dare risposte inedite a problemi inediti, cioè la produzione di merci ad alto valore aggiunto. È su quello che si compete. Così, la Cina della miriade di piccole manifatture di cianfrusaglia, la Cina più quantitativa che qualitativa, rischia di trovarsi fuori dal mercato.

Ed ecco che il governo di Pechino mette mano al proprio sistema industriale per razionalizzarlo e modernizzarlo. Stando alle dichiarazioni del ministero dell’Industria, il settore traino di questa trasformazione sarà non a caso quello dell’elettronica, dove attualmente solo Lenovo e Huawei sembrano soddisfare gli standard richiesti da Pechino: imprese con un fatturato di almeno 100 miliardi di yuan (16 miliardi di dollari). Entro il 2015 – dice il ministero – dovranno essere almeno cinque o otto.

Ma al tempo stesso, anche un settore più tradizionale, come quello siderurgico, verrà rivoltato come un guanto. Le imprese cinesi generalmente producono più acciaio di quanto sia necessario: 980 milioni di tonnellate l’anno, per una sovrapproduzione di circa 300 milioni. Questo inevitabilmente riempie i magazzini e abbatte i prezzi. Il ministero ha detto che i 10 principali produttori di acciaio del Paese dovranno ridursi entro il 2015 a 3 o 5, per un livello di concentrazione del 70 per cento da conseguire entro il 2020.

Non si sa ancora come, ma la regola del “grande e bello” verrà imposta a tutti i settori. Ed è probabile che questa spinta si accompagni a un’altra riforma richiesta a gran voce da più parti: quella delle grandi imprese di Stato, campioni della Cina all’estero in qualche caso, ma più spesso monopoli di fatto che si reggono su logiche clientelari e improduttive.

Sembra che Pechino si svegli oggi. In realtà non è così. Da anni ormai la Cina cerca di diventare un’economia avanzata, trasferendo altrove le produzioni più banali: il Sud-est asiatico, giusto per fare un esempio, è già pieno di fabbriche cinesi. Il Dragone sconta però un ritardo sull’innovazione dovuto a diversi motivi, tra cui un sistema scolastico lontano dall’eccellenza. Punta sul trasferimento di tecnologia, che avviene soprattutto con l’acquisizione di asset strategici all’estero. E qui il problema diventa politico, perché i Paesi occidentali, alla faccia del libero mercato, chiudono la porta in faccia agli acquirenti cinesi: a volte, pare, i soldi “puzzano”.

Così, per un gruppo Haier – una delle maggiori aziende di elettronica cinesi – che acquista la neozelandese Fisher & Paykel per accedere a tecnologie chiave e a nuovi mercati in Oceania ed Europa, ci sono Huawei e ZTE che hanno di recente incassato l’altolà del congresso Usa rispetto alle loro acquisizioni in terra americana. Sono una “minaccia alla sicurezza nazionale”, dicono a Washington, perché trasferiscono oltre Muraglia tecnologia militare.

La materia è scivolosa. Ai tempi della presentazione del Chengdu J-20 – il primo jet invisibile della Cina (siamo tra 2010 e 2011) – buona parte della stampa Usa avanzò il sospetto che un così rapido avanzamento tecnologico fosse frutto di spionaggio industriale. Accusa rinnovata di recente, con la comparsa dei primi droni (gli aerei senza pilota) cinesi.

Il “furto” avverrebbe così: le imprese civili cinesi entrano nella proprietà di aziende che forniscono singole tecnologie al Pentagono; oppure, semplicemente, chiedono a titolo informativo i dati di singole componenti (dai cuscinetti a sfera, alle tecnologie laser, passando per i materiali). Una volta ottenuti tutti i pezzi, il puzzle viene ricomposto ed ecco che salta fuori lo stealth o il drone cinese.

Ma non è comunque il caso di disprezzare la tecnologia cinese tout court. È notizia di questi giorni l’insoddisfacente performance degli iPhone oltre Muraglia, dove Apple è solo sesta nella vendita di smartphone (tutto è relativo, parliamo pur sempre di un +60 per cento). Alla radice, la concorrenza di Samsung ma anche delle cinesissime Huawei e Zte, capaci di collocare sul mercato telefonini altrettanto tecnologici ma più economici: mille yuan (160 dollari) per alcuni modelli. E prototipi di smartphone che sfruttano le tecnologie “cloud” (si appoggiano ad applicazioni condivise invece che scaricarle sul disco fisso) sono già forniti per esempio da Baidu, il massimo motore di ricerca cinese: una tecnologia per tutti, leggera, che rappresenterebbe la quadratura del cerchio anche per molti di noi, occidentali impoveriti.

Ecco dunque la nuova generazione di merci “secondo caratteristiche cinesi”: alla portata delle nostre tasche come vecchi tostapane, ma a un livello più alto. Ora, con la nuova strategia del “grande è bello”, la Cina sembra voler creare colossi capaci di aprire centri di ricerca & sviluppo all’altezza di quelli occidentali e, al tempo stesso, avere la massa d’urto sia per fare shopping all’estero, sia per vendere prodotti made in China ad alto valore aggiunto sui mercati stranieri. In fondo, se gli Usa alzano lo steccato, c’è sempre il resto del mondo.

[Scritto per Linkiesta; Foto credits: contemporarycondition.blogspot.com]