Big Data e «società armoniosa» in Cina

In by Gabriele Battaglia

Entro il 2020 Pechino mira a classificare cittadini e aziende sulla base del comportamento mantenuto online. È quanto emerge da un piano presentato nel 2014 – e aggiornato lo scorso settembre – che prevede una classifica dell’affidabilità sociale, politica, commerciale e legale dei soggetti attraverso l’accumulazione di crediti online. L’intento è quello di individuare gli utenti buoni da quelli cattivi, in modo da limitare le frodi e sottoporre a una più accurata supervisione alcune industrie minacciate da corruzione e scandali. Ma ovviamente permane il sospetto che lo scopo non dichiarato sia quello di assicurare il mantenimento dell’armonia sociale attraverso un controllo della popolazione sempre più ossessivo. «Nei film i cattivi si riconoscono con un’occhiata, ma come si fa a scovarli nella vita reale? Nell’era dei big data ci dobbiamo ricordare che anche il nostro sistema legale e di sicurezza, che raccoglie milioni di membri, non potrà essere separato da internet». Con queste parole Jack Ma, fondatore del colosso dell’e-commerce cinese Alibaba, si è rivolto a milioni di funzionari di sicurezza in un recente discorso ripreso sull’account ufficiale della Commissione per gli Affari politici e legali. Tema centrale: la prevenzione del crimine attraverso la sorveglianza online in tandem con i colossi dell’hi-tech Made in China. Niente di più attuale.

L’idea di Ma sembra infatti ammiccare a quanto esposto dal governo cinese nelle Linee guida per la costruzione di un sistema di credito sociale (2014-2020), definito in una nota del Consiglio di Stato «un’importante componente del sistema dell’economia di mercato socialista e della governance sociale». Sebbene i dettagli pratici del piano siano ancora vaghi, le finalità sono piuttosto chiare: raccogliere tutte le informazioni ricavabili online concernenti individui e società, in modo da indicizzare ogni soggetto sulla base dei crediti totalizzati in riferimento alla credibilità commerciale, politica, legale e sociale.

Risorsa primaria sarà il flusso di dati generati online dai 700 milioni di utenti cinesi – che ormai acquistano e comunicano perlopiù in rete e lo fanno via mobile -, con l’eventuale sussidio di archivi giudiziari e di polizia, registri bancari e documenti fiscali. La filosofia che anima il piano prevede premi per i «bravi» e punizioni per i «cattivi». Ergo, i punti accumulati influenzeranno l’accesso di una persona a una vasta gamma di servizi. Ti serve un prestito bancario? Vuoi comprare un biglietto aereo business? Sogni di mandare i tuoi figli nelle scuole migliori del paese? Non è detto tu possa farlo, dipende dal tuo «credito sociale». Certamente, l’inadempienza davanti a un debito, un atteggiamento critico verso il Partito-Stato o persino l’inosservanza della «pietà filiale» potrà costare ai «bad elements» un’erosione del punteggio finale. Similmente, un’azienda segnalata per aver infranto la fiducia dei consumatori verrà sottoposta a una sorveglianza quotidiana o a ispezioni random.

L’obiettivo conclamato è quello di portare a compimento lo sviluppo di una cultura della «sincerità» e di una «società socialista armoniosa», in cui «mantenere la fiducia è glorioso». «La creazione e il completamento di un sistema di credito sociale rappresenta un passo importante nella rettifica e standardizzazione di un’economia di mercato, così come nella riduzione dei costi di transazione e nell’aumento della prevenzione dei rischi economici», recita il comunicato rilasciato dal Gabinetto nell’aprile 2014. E’ in questo contesto che si inseriscono i «crediti sesamo», progetto pilota creato dal braccio finanziario di Alibaba per controllare in tempo reale i consumi e le abitudini di spesa dei singoli utenti in modo da accertarne l’affidabilità alla richiesta di un prestito.

Ma se l’interesse primario del governo cinese è quello di monitorare i big data per prevenire reati, sventare frodi o smascherare la vendita di prodotti nocivi e nuovi casi di corruzione, c’è già chi denuncia a gran voce le finalità repressive del piano. Non solo il sistema richiama alla lontana la divisione in «cinque categorie nere» teorizzata da Mao Zedong per individuare i controrivoluzionari durante la Rivoluzione Culturale, ma si aggiunge anche ad una serie di controverse leggi (la Cybersecurity Law e l’Anti-terrorism Law), che dando al governo pieno accesso alle informazioni degli user, puntano a rafforzare la sicurezza nazionale a discapito della privacy dei cittadini. Una questione che certamente non riguarda soltanto il gigante asiatico, ma che proiettata in un paese in cui l’ossessione per la stabilità è già all’origine di una censura serrata e un instancabile giro di vite sulla società civile, non può che scatenare svariate alzate di sopracciglio. Specie per quanto riguarda la posizione remissiva mantenuta dai colossi dell’hi-tech d’oltre Muraglia – da Tencent a Baidu – esortati dal presidente Xi Jinping a «mostrare un’energia positiva nel purificare il cyberspazio».

«Il mio account sui social media è stato cancellato parecchie volte, quindi il governo deve considerarmi una persona disonesta. Questo vuol dire che non potrò più andare all’estero o prendere un treno» ha commentato sarcasticamente ai microfoni del Washington Post lo scrittore Murong Xuecun, noto per le sue analisi velenose sulle distorsioni della società cinese.

Mentre la fattibilità del piano incontra ovvi ostacoli tecnici – dovuti in parte alla numerosità dei citizen (1,4 miliardi contro i 700 milioni dei netizen), in parte alla vulnerabilità del sistema, ghiotto boccone per hacker e cybercriminali – l’incognita emotiva sembra costituire un ulteriore possibile fattore di insuccesso. Lo sanno bene le autorità della contea di Suining (Jiangsu), che nel 2010 hanno provato a rubricare la popolazione locale in quattro livelli sulla base del comportamento mantenuto al volante, così come sul web o in famiglia. Il programma è parzialmente deragliato dopo che i residenti hanno paragonato il sistema alla «tessera del buon cittadino» introdotta sotto l’occupazione nipponica negli anni ’30, accusando il governo di aver «ribaltato i ruoli sociali»: sono i cittadini che devono valutare i funzionari non viceversa, hanno protestato sui social.

[Photo credit: Benzinga]