La Biennale di Venezia (9 maggio-22 novembre 2015) ospita anche a quelle produzioni cinesi che difficilmente trovano spazio all’interno dei circuiti espositivi convenzionali. Vengono qui presentati gli eventi collaterali a All The World Future che coinvogono gli artisti cinesi. Verranno esposte soprattutto le pitture a inchiostro, un genere che difficilmente trova spazio all’interno delle gallerie italiane.
Un importante evento collaterale che si svolgerà al di fuori del Padiglione cinese ufficiale sarà Humanistic Nature and Society (Shan-Shui) – An Insight into the Future (7 maggio – 4 agosto), organizzato dallo Shanghai Himalayas Museum presso Palazzo Ca’ Faccanon e curato dal coreano Wong Shun-kit. Il museo lavora da tempo nell’ottica della promozione di uno sviluppo sostenibile, favorendo eventi e iniziative mirate a consolidare nella coscienza collettiva l’importanza di una cultura paesaggistica e, come si evince dal titolo, anche in questo caso ha concepito una mostra che non solo intende delineare le nuove prospettive figurative della shanshuihua contemporanea, ma che mira soprattutto a metterne in risalto le aspirazioni ambientaliste. Tre le sezioni tematiche in cui troveranno spazio le opere di artisti che lavorano sul tema del paesaggio attraverso vari media e che intrecciano la propria ricerca espressiva con lo spirito dei tempi moderni, confrontandosi con le problematiche relative alla sostenibilità ambientale e sociale del proprio territorio.
Nella prima sezione della mostra – “Peach Blossom Spring. The Imagery of the Past” – verrà presentata allo spettatore la poetica che per secoli ha orientato e sotteso la pittura di paesaggio tradizionale, ben visibile nelle riproduzioni dei dipinti a inchiostro eseguiti da Xie Shichen (1487-1567) e He Haixia (1908-1998) che rinviano ad un’idea di natura sovrana e di uomo in relazione armonica con essa, pienamente integrato nel cósmos. Decisamente diversa l’atmosfera che pervade lo spazio espositivo relativo alla seconda sezione – “Metamorphosis. The Imagery of the Reality” – in cui le opere di Yang Yongliang, Ni Weihua, Yuan Shun, Wang Jiuliang e del Yangjiang Group (Zheng Guogu, Chen Zaiyan and Sun Qinglin) documenteranno lo sfruttamento dell’ambiente naturale causato da una rapida modernizzazione urbana che, con i suoi globalizzati edifici, ha completamente stravolto il concetto di identità architettonica che apparteneva alla tradizione cinese, standardizzando luoghi e geometrie, cementificando interi territori e producendo panorami sempre più artificiali ed antropizzati. Se ciò che si vede in “Metamorphosis” sono scenari contemporanei in cui il paesaggio si presenta come il risultato di una relazione pericolosamente sbilanciata che intercorre tra uomo moderno e territorio, nella terza sezione della mostra – “ShanShui Society. The Imagery of the Future” – artisti ed architetti suggeriranno come invertire questa pericolosa tendenza e ricreare quel rapporto empatico tra uomo e natura che deve essere alla base dell’architettura del futuro. Ed è proprio questo profilo che rende la figura del paesaggista contemporaneo estremamente interessante, la sua visione dell’arte così vicina alle teorie ecologiste tanto da trasformarlo in una sorta di attivista per la difesa dell’ambiente.
Altri due importanti eventi paralleli saranno Learn from Masters (9 maggio – 22 novembre) che vede coinvolta la Pan Tianshou Foundation e che avrà sede a Palazzo Bembo, e Thirty Light Years – Staging Chinese Art (9 maggio – 22 novembre), progetto organizzato dal Global Art Center Foundation e dal Guandong Museum of Art presso Palazzo Rossini. Entrambe le mostre daranno visibilità alla pittura a inchiostro, genere che difficilmente trova spazio all’interno delle gallerie italiane, sfatando un cliché in cui spesso ci si imbatte quando si parla di arte contemporanea cinese, vale a dire, il pensare che il termine contemporaneo riguardi soltanto la produzione pittorica ad olio o quella che si avvale dei new media. Il progetto Learn from Masters è stato presentato lo scorso 21 aprile nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso il Today Art Museum di Pechino, in cui il curatore Wang Jie ha esposto la visione estetica che sottenderà la mostra e che è ben esplicitata dal relativo titolo cinese: Qiyun feishi (气韵非师), ovvero, “il movimento vitale non si apprende dai maestri”. Scegliere di utilizzare come titolo una citazione estrapolata da un trattato sulla pittura cinese redatto nell’XI secolo dal teorico Guo Ruoxu (1021-1100) significa, sostanzialmente, porre l’attenzione sull’unicità di quei principi che informano l’intera pratica pittorica a inchiostro. Secondo l’evidenza restituitaci dalla letteratura di argomento artistico, le norme della creazione pittorica – tracciate tra il IV e il V secolo e rimaste sostanzialmente invariate fino alla fine del XIX secolo – teorizzano che una delle regole basilari a cui il pittore deve attenersi nell’esecuzione di un dipinto è quella di raffigurare il vero (tuzhen 图真), vale a dire, definire l’immagine tributando la dovuta attenzione alle sue caratteristiche formali quali massa, struttura e colore, ma senza trascurarne la caratterizzazione energetica, il movimento vitale, la resa di quel soffio-energia che porta la forma ad attualizzarsi e che, in ambito figurativo, privilegia sempre la componente simbolica rispetto alla ricerca della verosimiglianza formale.
Questa capacità del pittore di entrare in risonanza con l’oggetto della sua raffigurazione e che, tra l’altro, costituisce il fondamento del suo talento artistico, non si può imparare attraverso l’esercizio della copia di capolavori del passato, pur essendo questa una prassi obbligatoria, funzionale all’apprendimento della tecnica pittorica cinese e propedeutica all’elaborazione di un linguaggio stilistico personale. Tale abilità può essere acquisita soltanto comprendendo che esiste un legame indissolubile tra macrocosmo e microcosmo e che il pittore è il trait d’union tra queste due entità, capace di cogliere e rappresentare visivamente quella fitta rete di corrispondenze che si instaura tra di esse. Se il talento non si impara, allora cosa si può apprendere attraverso lo studio degli antichi maestri? E perché questo tipo di approccio alla pratica pittorica continua ad essere così importante? Lo riveleranno le opere Gu Kaizhi (345 – 406), Fan Kuan (990–1020), Ni Zan (1301–1374), Zhu Da (1626—1705), Wu Changshuo (1844-1927) ed i relativi video in cui il pittore contemporaneo Pan Gongkai – figlio del celebre Pan Tianshou (1897–1971) e Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Pechino – le reinterpreta, nella suggestiva cornice di atelier tradizionali ricreati ad hoc per l’evento.
Nel medesimo solco estetico-teorico si muove la mostra Thirty Light Years – Staging Chinese Art, un progetto espositivo pensato come una vetrina che presenti al grande pubblico un piccolo segmento della variegata produzione pittorica a inchiostro contemporanea, rivelandone prospettive ed elementi di continuità o di innovazione rispetto al canone classico. Appare evidente che le differenze tra pittura occidentale e pittura cinese sono sostanziali e che riguardano ogni ambito del processo creativo, dalla scelta del formato dell’opera ai materiali pittorici utilizzati (inchiostro, colori d’origine minerale o vegetale, carta o seta, e particolari pennelli), dalle tecniche adottate ai fondamenti teorici di natura metafisica che determinano l’impianto figurativo delle opere, tutti elementi che conferiscono peculiarità alla pittura cinese, rendendola un linguaggio visivo unico nel suo genere. Ed è proprio questa unicità che le mostre di questi due eventi collaterali intendono porre in risalto.
Le collettive di arte cinese di solito allestite in Italia, al contrario, non rendono giustizia a quello che è un fenomeno artistico estremamente ampio e stratificato, riducendone sistematicamente la complessità strutturale, la ricchezza di linguaggi visivi e di contenuti ad una serie di opere-cliché, spesso prodotte in serie, ed oramai divenute un vero e proprio marchio di fabbrica dell’arte contemporanea cinese, in grado di garantire visibilità ed elevati profitti. Queste mostre sono eventi che non costruiscono il proprio percorso visivo su una traccia temporale o tematica, ma divengono una sorta di zona franca in cui confluisce di tutto e in maniera completamente decontestualizzata, come se la definizione stessa di “arte contemporanea cinese” fosse un’etichetta sufficiente a legittimare la compresenza di opere, contenuti e media tra i più disparati. Appare dunque più che mai indispensabile la necessità di cambiare rotta, di mettere in gioco nuovi criteri curatoriali per evitare di cadere nell’errore del già visto o del già detto, di proporre linguaggi visivi non cristallizzati capaci di orientare il gusto estetico occidentale verso forme espressive ancora poco note, ma autenticamente e genuinamente cinesi. Solo in tal modo l’arte cinese contemporanea potrà intraprendere una nuova via, recuperando quella naturale inclinazione che ha condotto numerosi artisti del passato a misurarsi sulla questione cruciale del rapporto tra tradizione e modernità. Queste le premesse – e le promesse – del progetto espositivo che la Cina presenterà alla 56esima Biennale di Venezia e che lasciano supporre che il nuovo futuro dell’arte cinese comincerà proprio da qui.
*Elena Macrì è nata a Napoli nel 1981, si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali ed ha successivamente conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Asia Orientale e Meridionale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si occupa di storia dell’arte cinese moderna e contemporanea e tiene regolarmente seminari, conferenze e laboratori per diverse istituzioni accademiche e culturali. La sua smisurata passione per la pittura a inchiostro cinese l’ha condotta a studiare e a svolgere attività di ricerca presso l’Accademia di Belle Arti di Hangzhou e l’Accademia delle Arti di Nanchino, specializzandosi sulla pittura di paesaggio, argomento su cui ha pubblicato alcuni articoli. Recentemente, ha curato la mostra “The Remedy”, la prima personale in Italia della pittrice Zhang Yanzi (Napoli, PAN, 2014).