Biennale2015 – Quale futuro per l’arte cinese? 1/2

In by Simone

La Biennale di Venezia (9 maggio-22 novembre 2015) ospita anche a quelle produzioni cinesi che difficilmente trovano spazio all’interno dei circuiti espositivi convenzionali. Cao Fei, Qiu Zhijie, Ji Dachun e Xu Bing lavorano attraverso differenti linguaggi sul tema del veloce e selvaggio sviluppo urbano.
Okwui Enwezor, curatore della 56esima Esposizione Internazionale d’Arte che si terrà a Venezia dal 9 maggio al 22 novembre, ha concepito un progetto espositivo che intende dar forma alle istanze di una frammentata e caotica contemporaneità, affidando agli artisti il compito di «afferrare a pieno l’inquietudine del nostro tempo». L’arte che rappresenterà la Cina in questa Biennale sarà capace di «scavare a fondo nello “stato delle cose” e mettere in discussione l’ “apparenza delle cose”»?

Per l’arte cinese contemporanea, adempiere a questo compito significa mettere in atto nuove strategie curatoriali che siano in grado di dare visibilità non soltanto agli artisti più rappresentativi del mercato dell’arte, ma anche a quelle produzioni che difficilmente trovano spazio all’interno dei circuiti espositivi convenzionali, creando nel pubblico nuove aspettative. A giudicare dai quattro artisti cinesi selezionati per la mostra internazionale, dalle personalità artistiche che esporranno nel Padiglione cinese e dalle iniziative proposte tra gli eventi collaterali, sembrerebbe che la Cina riuscirà a presentare sulla scena dell’arte nuove attitudini creative capaci di indagare il disordine del nostro tempo attraverso il prezioso filtro della propria tradizione culturale ed artistica che, nello specifico, assumerà la forma di una proficua e variegata riflessione sul tema del paesaggio-territorio.

Da secoli, la pittura di paesaggio rappresenta l’espressione più alta dell’arte pittorica cinese e se la shanshuihua tradizionale ha sempre privilegiato un punto di vista filosofico sul paesaggio, intendendolo come una sorta di riflessione metafisica inerente una totalità, la paesaggistica cinese contemporanea si presenta interamente secolarizzata e traduce visivamente il nuovo tipo di relazione che intercorre tra l’uomo e l’ambiente sempre più denaturalizzato che lo circonda. Lo testimoniano le opere di Cao Fei, Qiu Zhijie, Ji Dachun e Xu Bing, illustri rappresentanti della scena artistica pechinese nonché artisti di fama internazionale che partecipano alla mostra All the World’s Futures e che, attraverso differenti linguaggi espressivi, lavorano sul tema del veloce e selvaggio sviluppo urbano, indagandone i molteplici risvolti sociali, analizzando l’impatto antropico sull’ambiente circostante e raccontando il senso di alienazione generato dal vivere in un territorio esteticamente alterato e socialmente trasfigurato.

Cao Fei, nota artista multimediale formatasi all’Accademia di Belle Arti di Guangzhou, ha all’attivo numerose partecipazioni a varie biennali ed i suoi lavori – che spaziano dal video alla fotografia alla performance – sono già stati esposti in prestigiose sedi quali il Guggenheim ed il MoMA di New York. L’artista ritorna per la seconda volta alla Biennale di Venezia presentando La Town, film del 2014 che riprende una tematica centrale in tutta la sua ricerca, ovvero, la contrapposizione tra realtà distopica e finzione, questione già magistralmente affrontata in lavori quali Whose Utopia (2006), RMB City (2007-2011) e Haze and Fog (2013). Si parla tanto di metamorfosi cinese, ma poco ci si sofferma a riflettere sui profondi cambiamenti strutturali determinati dalle riforme economiche avviate negli anni Ottanta ed esasperati dall’ingresso della Cina nel mercato globale. Le opere di Cao Fei innescano questo tipo di riflessione e descrivono attraverso metafore estetiche il disagio, lo smarrimento e la perplessità di chi si confronta con il nuovo background socio-economico-culturale determinato da un troppo rapido processo di modernizzazione che ha scatenato una smania di sviluppo e ricchezza senza precedenti. Presentando la sua interpretazione critica della realtà urbana contemporanea attraverso una sequenza di immagini antinomiche e valori antitetici, l’artista racconta quanto sia difficile preservare uno sguardo autentico e lucido sull’ambiente circostante, ponendo in risalto il divario esistente tra ciò che è reale e ciò che è immaginario, tra il concreto e diffuso malessere della società e le aspettative illusorie che si ripongono in essa, tra una oramai logorata tradizione ed una sempre più ordinaria modernità.

La sfrenata urbanizzazione che ha investito la Cina negli ultimi decenni ha drasticamente trasformato la nozione di paesaggio e la sua idea di rappresentazione, configurando nuove prospettive ermeneutiche per questo antichissimo genere pittorico. Qiu Zhijie, originario del Fujian e diplomatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Hangzhou (China Academy of Art), sceglie di lavorare sul tema della denaturalizzazione del territorio attraverso la rivisitazione del linguaggio pittorico tradizionale e presenta a Venezia un’installazione intitolata Jinling Chronicle Theater Project (2014), da cui si evincono due elementi fondamentali per inquadrare la sua ricerca: la necessità di un impegno civile da trasporre nella prassi creativa e l’importanza di interconnettere il presente artistico della Cina al suo passato, assorbendone e rielaborandone la matrice culturale. La sua eclettica pratica artistica combina pittura a inchiostro o calligrafia insieme con video, fotografia, installazione e performance, generando notevoli lavori concettuali che sono manifestazione di un’idea di arte onnicomprensiva, in risonanza con la volontà espressiva dell’artista, ma sempre in relazione con le istanze e le problematiche della società contemporanea. Per Qiu, l’artista è un uomo che vive il proprio tempo scandagliandolo, sfidandone costantemente l’orizzonte culturale e l’eco di questo approccio sperimentale alla creazione artistica risuona in ogni elemento del suo Jinling Chronicle Theater Project.

In maniera analoga, Ji Dachun reinterpreta la pittura a inchiostro cinese presentando una versione ad olio dei tradizionali generi “paesaggio” e “fiori e uccelli”. Originario del Jiangsu e pechinese d’adozione, Ji si è formato all’Accademia di Belle Arti di Pechino (Central Academy of Fine Arts) e le sue opere sono state esposte in diversi musei asiatici ed europei, incluso il MACRO di Roma, a cui va il merito di aver dato visibilità alla ricerca espressiva di un artista cinese che riesce ad essere critico rispetto alla società del suo tempo, ma senza necessariamente assecondare lo stereotipato gusto del mercato occidentale, troppo spesso incline a ricercare la definizione di “arte dissidente” che accompagna l’opera d’arte. I soggetti pittorici della sua più recente produzione artistica sono costituiti da paesaggi e nature morte,  i primi concepiti come astratti aggregati materici composti in forma di scenari naturalistici, le seconde come surreali innesti tra elementi fitomorfi, zoomorfi e dettagli anatomici, ed entrambi ritratti mediante un linguaggio stilistico che intende porre in risalto l’esistenza di una natura sempre più artificiale e manipolata dall’uomo.

La stessa volontà ecologista anima Xu Bing, vicedirettore dell’Accademia di Pechino e artista da tempo ben noto in ambito internazionale per le sue imponenti installazioni e sculture  – oltre che per i suoi dipinti e performance – incentrate su un’idea di decostruzione e designificazione del segno scritto. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, Xu Bing non esporrà un’opera della serie Background Stories, un progetto decennale che ha visto l’artista cimentarsi in una nuova forma di shanshuihua e in cui la rappresentazione del paesaggio viene concepita come una risorsa visiva per esprimere, in forma allegorica, il proprio atteggiamento critico nei confronti di quella selvaggia urbanizzazione che sta trasfigurando la Cina, ma presenterà due enormi sculture di trenta metri ciascuna raffiguranti due fenici, interamente realizzate riciclando materiali di scarto prodotti dai cantieri edili di Pechino. Così come la fenice rinasce dalle proprie ceneri, l’artista riesce a connotare positivamente e a dare un senso altro ai rifiuti, alle macerie di uno spazio cangiante che si pone a metà strada tra passato e futuro, nel tentativo di instaurare un dialogo costruttivo tra uomo e ambiente circostante.

Una precisa idea della nuova cultura paesaggistica che orienta gli artisti cinesi la si potrà ricavare anche dalle opere in mostra nel Padiglione nazionale Other Future, a cura del Beijing Contemporary Art Foundation (BCAF) che presenterà i lavori dell’architetto Liu Jiakun, dell’artista multimediale Lu Yang, del compositore Tan Dun, della coreografa del Living Dance Studio Wen Hui e del regista-documentarista del Caochangdi Work Station Wu Wenguang. La presenza di generi così diversificati si dimostra in linea con lo spirito di questa Biennale che si appella ad una creatività artistica in senso ampio, capace di declinarsi in ambito pittorico, performativo, cinematografico, musicale, teatrale e letterario. L’evento avrà sede al Giardino delle Vergini dell’Arsenale che, nel concept dell’Esposizione, è uno dei luoghi deputati alla riflessione sul deformato “stato delle cose”, lo spazio fisico in cui il territorio inteso come immagine e forma del tempo moderno verrà esplorato nella sua accezione di spazio vissuto, abusato e cementificato nel quale l’individuo vive e si muove e con il quale egli tende a ricostruire un nuovo ordine naturale delle cose, consapevole che senza un intimo contatto con la natura la vita rimane incompleta.

La nozione di giardino sarà proprio il concetto-cardine da cui gli artisti partiranno per la realizzazione delle opere esposte nel padiglione. Nella cultura cinese, l’idea di giardino – così come quella di pittura di paesaggio – è incentrata su una visione totalizzante del reale, connotata da una forte componente simbolica che tesse una struttura visiva fatta di continui rimandi tra macro e microcosmo e sarà sicuramente interessante vedere dialogare criticamente le velleità estetiche tradizionali insieme con le deformazioni territoriali della contemporaneità nell’urban landscape design di Liu Jiakun, nelle controverse creazioni di Lu Yang che fondono biologia (dominio della natura) e new media (dominio dell’uomo), nei lavori audiovisivi di Tan Dun che spesso ricorre a materiali organici come supporti musicali, nelle performance di Wen Hui e nei documentari di Wu Wenguang che, con il loro precedente lavoro intitolato The Folk Memory Project, hanno già dato prova di saper rileggere il passato in chiave contemporanea. Anche la ricerca di questi artisti rivela il lato oscuro della Cina trasformista del nuovo millennio e della sua transizione culturale, descrivendo una realtà distorta che risulta funzionale all’idea di una necessaria mediazione tra uomo e territorio, istanza di cui l’artista si fa carico in quanto conscio della sua capacità di cogliere e rappresentare l’oggettiva condizione del reale e, al contempo, le sue possibili evoluzioni future.

*Elena Macrì è nata a Napoli nel 1981, si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali ed ha successivamente conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Asia Orientale e Meridionale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si occupa di storia dell’arte cinese moderna e contemporanea e tiene regolarmente seminari, conferenze e laboratori per diverse istituzioni accademiche e culturali. La sua smisurata passione per la pittura a inchiostro cinese l’ha condotta a studiare e a svolgere attività di ricerca presso l’Accademia di Belle Arti di Hangzhou e l’Accademia delle Arti di Nanchino, specializzandosi sulla pittura di paesaggio, argomento su cui ha pubblicato alcuni articoli. Recentemente, ha curato la mostra “The Remedy”, la prima personale in Italia della pittrice Zhang Yanzi (Napoli, PAN, 2014).