Il documentario di Zhao Liang, già vincitore del Green Drop Award alla Mostra del Cinema di Venezia e recentemente proiettato all’Across Asia Film Festival di Cagliari, racconta le condizioni durissime dei minatori della prefettura di Wuhai, in Mongola interna. Che continuano a morire di malattie respiratorie a decine di migliaia, protesi verso un paradiso effimero fatto di cemento.L’Across Asia Film Festival, giunto quest’anno alla quarta edizione, si conferma come un importante luogo d’incontro per le nuove tendenze del cinema asiatico. L’edizione del 2016, che si è svolta dal 22 al 27 febbraio, si è mossa su molteplici piani stilistici e concettuali, passando dall’omaggio al grande regista singaporense Eric Khoo alla scena documentaristica indipendente che sta emergendo in Vietnam grazie al lavoro dell’Hanoi DocLab e del Goethe-Institut.
Ma la proiezione che ha probabilmente destato il maggior interesse è stata «Behemoth» (Bei xi mo shou, in traslitterazione pinyin), documentario diretto da Zhao Liang che ha vinto il Green Drop Award alle 72ma Mostra del Cinema di Venezia, oltre ad aver ricevuto la nomination al Leone d’Oro. Zhao Liang è uno dei più interessanti cineasti cinesi e attraverso i suoi lavori documenta le profonde mutazioni sociali e ambientali che caratterizzano la difficile transizione del processo di sviluppo cinese verso il liberismo economico.
«Behemoth» è ambientato in una miniera di carbone nella prefettura di Wuhai, profondo nord della Mongolia Interna. Il registro narrativo scelto dal regista ricalca la Divina Commedia, permettendo a Zhao di condurci come un novello Virgilio in un viaggio che parte dalle viscere della terra, e della condizione umana, per poi risalire verso un effimero paradiso. Zhao rifugge la narrativa e punta sulla potenza delle immagini, sull’impatto emotivo generato dalla visione di un ambiente distrutto dall’incapacità dell’uomo di controllarsi.
La pellicola è divisa in tre parti, che idealmente rappresentano il trittico dantesco, ed ognuna di esse ha la propria peculiarità stilistica e concettuale. Ogni momento di questa triade è identificabile dall’utilizzo di un colore rappresentativo: rosso per l’inferno, grigio per il purgatorio e blu per il paradiso.
Il primo capitolo del documentario riguarda proprio gli inferi, dove le miniere di carbone domandano sempre più spazio e devastano qualsiasi ostacolo ambientale. Le colline che un tempo erano rigogliose ora si presentano come un ammasso di cenere, rendendo eclatante il contrasto tra vita e morte che permea tutta la narrazione. La miniera viene dipinta come il crocevia delle anime perdute, il luogo dove il genere umano ha dichiarato la propria resa, ma anche la propria complicità, alle meccaniche forze della distruzione. L’emblema della discesa è un lungo piano sequenza di un ascensore che porta gli uomini sempre più in profondità nella miniera.
Il secondo capitolo mostra il purgatorio dove vengono confinati i lavoratori della miniera e della vicina fonderia. Le loro condizioni sono terribili, sacrificando la loro vita in nome di un progresso e di un benessere da cartolina che non vivranno mai. Mostrano i segni della rovina, del decadimento fisico e mentale. Le mani devastate vengono mostrate senza orgoglio, i polmoni collassano sotto i colpi della pneumoconiosi, i macchinari pompano il nero liquido della morte. Non c’è speranza per queste persone, viste dalla voce narrante come anime disperate alla ricerca di un posto nella foresta di lapidi.
La terza e ultima parte mostra con sarcasmo il frutto della sofferenza e della distruzione. Il paradiso è tanto celeste quanto vuoto e desolato, il sogno cinese spogliato di qualsiasi velleità umana. Zhao ci ricorda come il ferro sia servito a costruire il paradiso dei nostri sogni, rappresentato dalla desolazione della vicina Ordos, forse la più famosa tra le città fantasma sorte in Cina negli ultimi dieci anni. La città è un paradiso di cemento, l’ennesima promessa fatta nel nome di una vuota e scintillante modernità.
Il film si chiude con un drammatico resoconto delle conseguenze portate in dote dall’attività mineraria. I morti per malattie respiratorie, principalmente l’incurabile pneumoconiosi, sono in continuo aumento e all’orizzonte non si vedono particolari misure di sicurezza per invertire la tendenza. Le statistiche ufficiali ci dicono che nel solo 2014 ci sono stati 26.873 nuovi casi, con un aumento del 16 per cento rispetto all’anno precedente. La National Health and Family Planning Commission ha invitato gli imprenditori ad organizzare dei periodici controlli sanitari per i lavoratori, oltre a dichiarare la propria preoccupazione per l’abbassamento dell’età media in cui viene diagnosticata la malattia.
Al riconoscimento del problema non è però seguita una precisa strategia politica per arginarlo, lasciando la gestione della prevenzione in mano ad una classe imprenditoriale che non ha alcuna intenzione di far emergere ulteriormente la questione, tantomeno di internazionalizzarla. Il film di Zhao Liang probabilmente non riuscirà ad essere un vettore di sensibilizzazione popolare, ma il suo successo internazionale potrebbe pungere nell’orgoglio l’élite politica che solo un anno fa dichiarava apertamente guerra all’inquinamento.
* Alessandro Uras si occupa di geopolitica e geostrategia nel sud-est asiatico, con particolare interesse alle vicende del Mar Cinese Meridionale. Dottorando all’Università di Cagliari al Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni, Cattedra di Storia e Istituzioni dell’Asia.