Battaglia politica Usa in scena a Taiwan

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Taipei non è Kiev, ma in questi giorni assomiglia a Washington. Nelle prossime ore è atteso l’arrivo di Mike Pompeo, ex segretario di Stato trumpiano. Ieri è arrivata in tutta fretta una delegazione di ex funzionari mandata da Joe Biden per anticipare uno dei potenziali rivali alle elezioni presidenziali del 2024.

Guidata dall’ammiraglio Michael Glenn Mullen, ex capo di stato maggiore con George Bush Jr e Barack Obama, la delegazione comprende anche Michèle Flournoy, ex sottosegretaria obamiana alla Difesa e due ex direttori del Consiglio di sicurezza nazionale per l’Asia, Mike Green ed Evan Medeiros.

Le due missioni si incroceranno per qualche ora: il team Biden lascerà Taipei in serata dopo aver incontrato la presidente Tsai Ing-wen e il ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng, mentre Pompeo resterà sull’isola quattro giorni con la moglie e il consigliere Miles Yu.

Obiettivo dichiarato della delegazione di Biden: riaffermare «il sostegno duraturo a pace e stabilità regionali», dice il coordinatore per l’Indo-Pacifico Kurt Campbell, rassicurando Taipei dopo l’invasione russa in Ucraina e allo stesso tempo ribadendo alla Cina la centralità strategica assegnata all’Asia-Pacifico. Tutto vero, ma pare palese la volontà di interferire con la visita di Pompeo, che la Casa Bianca ha definito il viaggio di «un privato cittadino».

Una battaglia politica americana combattuta sul palcoscenico (o sulla pelle) di Taipei. Secondo quanto confermato da fonti politiche e non politiche al manifesto, il governo taiwanese ha comunque tirato un sospiro di sollievo alla notizia dell’arrivo della delegazione di Biden.

Prima ragione: il timore che Pompeo possa creare qualche imbarazzo nel rapporto con la Casa Bianca. Seconda ragione: il possibile collegamento diretto tra Ucraina e Taiwan (fatto anche da Trump ma smentito a più riprese da Tsai). Visto l’utilizzo della guerra da parte di Trump e Pompeo per criticare i Dem, ci si può aspettare che l’ex segretario di Stato possa seminare sfiducia nei confronti dell’amministrazione Biden.

Anche perché, come spiega un funzionario sotto richiesta di anonimato, «come sempre» il governo non ha chiesto garanzie né posto condizioni su quanto dirà Pompeo in conferenza stampa e al discorso alla Prospect Foundation, il think tank che ufficialmente lo ha invitato.

Da una parte il governo cinese che cerca di convincere i taiwanesi che gli Usa li abbandoneranno come hanno fatto con gli afghani e gli ucraini, dall’altra un ex segretario di Stato americano (peraltro spesso apprezzato per aver parlato a voce alta a difesa di Taiwan) che gli dice che l’attuale presidente è troppo debole per difenderli: una miscela potenzialmente esplosiva.

Ecco perché l’arrivo della delegazione di Biden può mettere una toppa, evitando malintesi sul rapporto Taipei-Washington e stemperando la presa della retorica di Pompeo sull’opinione pubblica. Certo, come prevedibile il Pcc non l’ha presa bene.

Il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha detto che gli Usa «pagheranno a caro prezzo» il loro avventurismo nello Stretto e che le loro iniziative «anticiperanno la rovina delle forze separatiste», riferendosi però soprattutto al passaggio nello Stretto del cacciatorpediniere Ralph Johnson di sabato scorso.

La delegazione di Biden conferma a Pechino che la postura Usa su Taiwan è completamente diversa rispetto a quella su Kiev. Ma allo stesso tempo lancia un messaggio implicito, non si sa quanto voluto, prendendo le distanze da quanto dirà Pompeo: «Quelli che vogliono il cambio di regime sono gli altri».

Una presa di distanze, che sta nell’atto e non ha bisogno di parole, che sarebbe stata impossibile senza l’invio della delegazione e col palcoscenico lasciato solo a Pompeo. Un atto sul quale pende comunque l’interpretazione di Pechino.

Mentre il Guangming Ribao, media controllato dal Comitato centrale del Pcc, ieri titolava in prima pagina sui 50 anni della visita di Nixon: «Il trend della cooperazione win-win tra Cina e Usa è irreversibile».

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il manifesto]